C’è un’educazione di cui nessuno parla.
Un’educazione che non si insegna tra i banchi, non si certifica con diplomi, non si celebra con applausi.
È l’educazione al sentire.
Nasce nei primi sguardi, nei primi abbracci, o nei primi vuoti.
Si insinua silenziosa tra le pieghe di un’infanzia, tra le parole dette — e soprattutto, tra quelle mai pronunciate.
Da lì, lentamente, affiora la parola sentimento.
E con lei, una vita intera.
Ci affacciamo al mondo armati solo di questa fragile grammatica emotiva, e ci troviamo a fare i conti con una moltitudine di volti.
Alcuni ci somigliano al punto da farci paura.
Altri sembrano lontani, irraggiungibili, eppure familiari.
Ci aggrappiamo a ciò che chiamiamo famiglia, ma presto scopriamo che non sempre la famiglia è dove si nasce.
A volte la famiglia si trova, per caso o per istinto, nei legami che scegliamo.
E a volte, è proprio quella d’origine a diventare la più estranea.

Tutto ruota attorno a un desiderio inconfessabile ma comune a ogni essere umano:
colmare quel vuoto.
Quel senso sottile e profondo di solitudine che abita anche le stanze più affollate.
Cerchiamo l’amore, l’approvazione, la conferma.
Lo facciamo nei gesti, nei sorrisi, nei corpi degli altri.
Ma nessuno ce lo dice: ciò che cerchiamo non è là fuori.
Un giorno — forse per caso, forse per necessità — ci affacciamo al vuoto.
E restiamo fermi.
Non scappiamo più.
E allora accade qualcosa.
Scopriamo che proprio lì, in quella solitudine tanto temuta, ci siamo noi.
Interi.
Presenti.
Vivi.
Non più bambini in cerca di approvazione.
Ma anime che comprendono:
che l’amore, quello vero, comincia a un passo da noi.
Nel silenzio.
Nel vuoto.
Nel luogo che per tutta la vita abbiamo cercato di evitare.
E allora una domanda si fa strada, sottile come un soffio:
E se la solitudine non fosse mancanza,
ma il primo, autentico atto d’amore verso noi stessi?
Foto di Aleksandr Popov su Unsplash
Music track: Coming Of Age by Hazelwood