Francesco Prosperi aka Homespun. Per diversi anni è stato il cantante degli Mantraturbato. Ha deciso di intraprendere la carriera da solista nella scena elettronica. In breve tempo divenuto un giovane talento. Francesco racconta la propria esperienza musicale e non solo.

Cosa ti porti dietro dall’esperienza con i Mantraturbato?

I Mantraturbato sono stati e sono tutt’ora una vera e propria fucina grazie alla quale ho appreso la maggior parte delle cose che so sul “fare musica”; inoltre i miei primi esperimenti elettronici sono stati fatti concretamente su brani dei Mantraturbato, dai quali ho persino “preso in prestito” dei frammenti sonori per alcuni pezzi del mio album.

Se dovessi dare un aggettivo al tuo lavoro “When I Was the First Man on the Moon” (2006 – Soffici Dischi), quale attribuiresti?

Direi “sorprendente”, nel senso letterale del termine, perché lo è stato da molti punti di vista… innanzitutto per me, visto che la sua pubblicazione è stata una gran sorpresa: quando ho iniziato a lavorare ai pezzi, infatti, non pensavo sarebbero finiti in un disco; sorpresa c’è stata anche tra coloro che lo hanno ascoltato, perché non si tratta proprio del disco italiano che ti potresti aspettare da un momento all’altro…

A tuo avviso perché l’elettronica “contemporanea” è così ricca di glitch (Ndr. Frammenti di suoni spezzati)?

Il glitch è una dichiarazione d’amore verso l’ordine e la logica, verso l’elemento più computerizzato, “non umano”, presente nella musica, ed è quindi la vera caratteristica che contraddistingue l’elettronica oggi. Oramai esistono suoni di tutti i tipi in tutti i generi musicali, le contaminazioni hanno portato ad eliminare i presupposti canonici secondo i quali “chitarra elettrica=rock”, “batterie elettroniche=techno”, e via dicendo… volendo estremizzare, direi che si rende quasi necessario un tipo di suono così palesemente artificiale per poter rivendicare l’identità elettronica di certi lavori.

Un lavoro definibile malinconico. Quale stato d’animo ti ha portato alla realizzazione del disco?

Il mood malinconico che attraversa il disco è inscindibilmente legato alle tematiche che lo compongono… immagina di essere un astronauta in viaggio nello spazio, lontano milioni di chilometri da casa, diretto verso luoghi inesplorati, verso l’ignoto: lo stato d’animo non può che essere di nostalgia mista a speranza, con una tensione che rimane viva come un rumore di fondo.

La musica d’ispirazione francese come quella degli Air ha influenzato positivamente il tuo lavoro nella scelta dell’inserimento degli Archi?

Sì e no… nel senso che, sicuramente, l’elettronica francese, soprattutto recentemente, riveste una certa importanza nei miei ascolti e quindi nelle mie fonti d’ispirazione; sebbene io non ami particolarmente la cultura transalpina, ammetto che, quando si parla di musica elettronica, ci sia da fare giù il cappello: Agoria, Cassius, Laurent Garnier, Colder, St. Germain, senza scomodare mostri sacri come Daft Punk o i da te citati Air, sono punti di riferimento imprescindibili. Ciò nonostante, credo che ad influenzarmi maggiormente, da questo punto di vista, siano state le colonne sonore e comunque tutta un certa musica di ispirazione “cinematografica”.

Cosa ti ha dato ArezzoWave?

Quest’anno direi una delusione. Come saprai, dopo 20 anni la manifestazione ha lasciato la sua città d’origine per trasferirsi a Firenze; puoi immaginare cosa significhi questo per chi, da 15 anni, la seguiva con passione… ma ci tengo a precisare che, più che il trasloco in sé per sé, che temo fosse diventato inevitabile, sono stati i tempi ed i modi che non mi sono andati giù.
Al di là di questo, Arezzo Wave è stata, anno dopo anno, un’esperienza eccezionale come spettatore, come musicista e come abitante di questa città; avendo fatto parte dello staff e avendo partecipato ad A.R.I.A. (l’Università del rock promossa dalla Fondazione Arezzo Wave Italia), ho avuto la fortuna di entrare in contatto con una serie di personaggi, situazioni e aspetti del mondo della musica che mi hanno sicuramente accresciuto.

Perché Homespun cosa significa?

“Homespun” letteralmente significa “fatto in casa”, con particolare riferimento al tessuto, e l’ho scelto perché incarna perfettamente il mio approccio alla composizione; non semplicemente “casalingo” quindi, ma votato al patchwork, al riutilizzo creativo di materiali esistenti.


Sito dell’Artista: www.homespun.it

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