Compositore italiano dallo stile minimale, mai banale e dal forte impatto emozionale. È al suo quarto lavoro, un omaggio alla fantasia. Una conferma della spiccata sensibilità, della forte espressività del sentimento attraverso le note del pianoforte a coda, suo inseparabile compagno.

Al microfono di Patrizio Longo incontriamo Remo Anzovino. Bentrovato?

Grazie.

Viaggiatore Immobile (2012 – Egea Musica) il tuo ultimo lavoro ma quando si viaggia restando immobili?

Quando non si ha paura dei propri desideri e del veicolo più veloce, la fantasia.

Un lavoro dedicato al pianoforte a coda? Strumento così ingombrante da impedirne il viaggio?

Era un espediente quasi letterario immaginare il pianoforte a coda come un personaggio di un romanzo che data la sua stazza può viaggiare i 4 angoli del mondo con la forza appunto della sola fantasia.

Come ti sei avvicinato al suono pianoforte?

Da bambino in casa c’era un pianoforte a muro, mi sembrava una scatola magica e in fondo per me la musica ancora adesso è ancora un grande gioco.

Commentiamo insieme questa tua affermazione: «i tasti bianchi e neri del pianoforte sono la cartina geografica di un percorso senza limiti?»

La conoscenza delle cose deriva dalle esperienze che fai, e quella delle emozioni proprie e altri è la più forte e appagante. Con il pianoforte e con la musica si possono descrivere le emozioni immaginandole come territori da esplorare.

La tua breve ma intensa discografia ti ha “marcato” nel segmento del jazz. In realtà senti che ti appartiene questa etichetta?

Bisogna mettersi d’accordo su cosa significhi Jazz. Se lo intendi in senso tradizionale no perché le mie sono vere e proprie composizioni scritte in cui l’elemento di improvvisazione, che spesso c’è e con la partecipazioni di grandissimi musicisti jazz,  è un ingrediente estetico di una mia partitura, come certe scelte di ritmo. Ma credo che oggi Jazz vada inteso come Musica Contemporanea laddove è in grado di parlare trasversalmente della contemporaneità. Se pensi ad E.S.T. – che considero l’ultima grande cosa innovativa avvenuta nel jazz – capisci quanto poco jazz tradizionale ci sia dentro e quanto ci siano piuttosto tanto senso della composizione classica, del rigore delle forme del contrappunto bachiano, ma anche tanto Radiohead e tanto altro che non c’entra con Erroll Garner.

Permettimi questa linea di unione ma ascoltando Viaggiatore Immobile ho avvertito la sensazione di un lavoro che aveva nelle proprie radici d’ascolto le influenze tra Robert Flipp, Brian Eno e Sakamoto. Quali sono stati i tuoi ascolti?

Certo, in realtà sono un fan di Steve Reich e del primo Philip Glass, di tutto ciò in cui abbia messo le mani Brian Eno, a partire da Ambient 1 e Music for films, ma anche di Puccini, di Mozart, della tradizione classica napoletana, di Jimi Hendrix, Luigi Tenco e Miles Davis. E potrei andare molto avanti. In questo disco un grande lavoro di cross over sui suoni è stato portato da Taketo Goahara il mio produttore che ha saputo vestire con suoni legati al minimalismo storico brani caldi e lirici tutt’altro che legati alla scrittura minimalista per celle o seriale, ottenendo un effetto di eleganza che mi ha molto soddisfatto.

Raccontiamo dell’incontro con Oliviero Toscani, che firma la copertina del cd, anch’egli per altri versi un viaggiatore?

Un genio, che non conoscevo di persona ma che ammiravo profondamente come milioni di persone nel mondo per aver spostato il baricentro della comunicazione per immagini. Lui ha assistito ad un mio concerto, ne è rimasto entusiasta e ha voluto sentire l’album in anteprima. Mi ha chiamato dopo tre giorni dicendomi: «Disco bellissimo, ho l’idea di un tuo ritratto per la cover del tuo album.» Pensare che il privilegio di una sua cover di un album l’ha avuta Lou Reed nel 1975 e basta, mi emoziona ancora adesso. Ma mai quanto quello di averlo visto lavorare e scattare personalmente in un clima di grande creatività e consonanza artistica.

Viaggiatore Immobile potremmo definirlo come un punto di svolta nel tuo percorso?

Sicuramente è il primo disco nel quale il pianoforte è l’assoluto protagonista del mio racconto, ne è la voce, ma sento che anche la scrittura ha maturato un’importante fase di evoluzione.

Il lavoro si conclude con una suite per pianoforte e coro virile una scelta che ricade su quale ragione?

Sul fatto che sono nato e vivo a Pordenone, ad un’ora da lì e che nessuno in quasi 50 anni aveva scritto una musica importante per celebrare quei contadini. È una musica che è sgorgata in maniera molto spontanea e che spero possa contribuire a non rimuovere un fatto che non deve essere dimenticato.

Foto: Oliviero Toscani

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