Basso, chitarra, batteria, viola e tastiere: questa la formula sulla quale gli Underfloor hanno improntato la propria linea sonora che definiscono «rock romantico». Presentano sulla scena il terzo lavoro che pregnante di sonorità analogiche trasmette all’ascoltatore una riflessione più matura sull’elaborazione delle metriche.

Al microfono di Patrizio Longo incontriamo gli Underfloor con Marco e Guido, bentrovati Un’idea sonora che nasce dalla passione di far musica?

Marco: Ciao ragazzi. Direi che l’idea sonora nasce anzitutto dal bisogno di creare un linguaggio che sia fortemente personale. Abbiamo voluto mantenere l’immediatezza della melodia e della canzone unendola alla nostra ricerca sul piano dei suoni e degli arrangiamenti. L’intento è stato quello di creare un mondo che avesse una sua coerenza interna e una riconoscibilità forte.

Solitari Blu è il brano d’apertura del omonimo cd. Chi sono questi Solitari?

Guido: Solitari blu l’ho sempre visto come un’esperienza nello spazio ancestrale, come il finale psichedelico di 2001: odissea nello spazio di Stanley Kubrick. L’immagine iniziale è proprio mutuata dai telefilm di fantascienza anni ’70, come Spazio 1999: solo un filo ti trattiene ad un’ipotetica base, sempre più distante dal sole. Anche nel videoclip abbiamo cercato di trasmettere questo desiderio di sole. C’è un brano rimasto fuori da “Vertigine” (il nostro cd precedente del 2008) che a me piaceva moltissimo, intitolato Così debole, e che iniziava proprio con il verso “Così debole questo sole…”: in qualche modo ho voluto ripartire da lì. In realtà nel suo sviluppo il testo parla di un riscatto, personale oggettivo ma anche ovviamente simbolico: guardare la Terra dall’alto per liberarsi delle nostre sovrastrutture; Solitari perché è un percorso che si deve compiere da soli, blu perché è il colore del romanticismo, dell’amore che rappresenta, in fondo, l’unica chiave di lettura della vita accettabile.

Una packing per il vostro Cd che sembrerebbe rimandare ad un classico dei Pink Floyd: The dark side of the moon?

Guido: è andata proprio così! Avevamo già pronto il master e, durante un fitto scambio di e-mail col nostro produttore Ernesto De Pascale gli scrissi che la copertina che avevamo non era abbastanza forte, che per questo disco ci voleva un’idea alla The dark side of the moon. Il giorno dopo Ernesto mi dette appuntamento, e come arrivai mi sventolò davanti la copertina, praticamente già fatta. Sono opere fotografiche sperimentali dell’artista pistoiese Gianfranco Chiavacci, risalgono al 1973 e sono attualmente esposte a Prato.

Un disco che trasuda malinconia, come riflessione del tempo che passa o nostalgia di quello andato?

Guido: è possibile che nei testi ci sia un’aria malinconica: sicuramente è una riflessione del tempo che passa, ma non nostalgia di ciò che è stato. Probabilmente in futuro cercheremo di utilizzare chiavi di scrittura differenti, in questo disco mi è venuto spontaneo andare in questa direzione, forse anche per continuità con quelli precedenti. Marco: Un disco una volta realizzato va sempre in una direzione autonoma, è guidato inevitabilmente dal tipo di risposta che crea negli altri… non abbiamo volutamente cercato di realizzare un’opera sulla malinconia. Abbiamo senz’altro messo in gioco molto di noi sia sul piano delle suggestioni sonore che su quello delle parole, ma nessuno credo propenda per un attaccamento nostalgico al passato. Forse c’è più il tentativo di confondere e rimescolare i piani temporali per creare un effetto di “smarrimento psichedelico”.

Se volessi chiedervi quali sono i vostri “padri” sonori?

Guido: beh, per me anzitutto i Beatles, poi tutto il rock inglese anni’70, dai Led Zeppelin ai Genesis, e, parlando di gruppi contemporanei, sicuramente i Radiohead. Nel panorama italiano non riconosco “padri”, ma senz’altro mi piacciono molto i Verdena, a fianco di classici come De Andrè e PFM. Come bassista ho sempre ammirato Geddy Lee dei Rush, così come Chris Squire e Paul McCartney. Marco: L’unico denominatore comune sono i Beatles. Da loro siamo partiti tutti quanti. poi ovviamente ognuno ha seguito i suoi percorsi, che sono molto differenziati. Ci sta l’hard rock, la psichedelia, il blues, la musica classica.

Nella musica spesso s’infiltra anche la letteratura, la poesia e allora riferimenti “paterni” anche per la letteratura? Guido: con gli Underfloor abbiamo sempre dato importanza al binomio musica/letteratura. Nel 2005, con Matteo alla voce, presentammo uno spettacolo, dal titolo “Underfloorence: echi dalle visioni sotterranee” dove affiancavamo alla nostra musica eseguita unplugged delle letture di frammenti di letteratura del Novecento in qualche modo legata a Firenze. L’idea era che ogni città ha un suo climax che viene inevitabilmente fuori, soprattutto nei testi, ed effettivamente abbiamo riscontrato un trait-d-union tra i frammenti di Franco Fortini, di Mario Spinella, di Dino Campana, per fare degli esempi, e i testi nostri ma anche di altri gruppi fiorentini come Diaframma e i primi Litfiba. È stata un’esperienza molto bella, che purtroppo abbiamo interrotto perché in quel momento sentivamo un bisogno di tornare ai live elettrici.

Solitari Blu esprime al meglio quello che vi eravate riproposti di creare?

Guido: dal mio punto di vista assolutamente sì! O meglio, eravamo partiti con l’idea di fare un album che prendesse una direzione prevalentemente strumentale, un po’ progressive se vogliamo. Ma poi sono venute fuori soprattutto canzoni… e non me ne dispiace affatto. Per quanto riguarda la registrazione e il missaggio, su banco analogico, devo dire che ne sono pienamente soddisfatto, così come del mastering che abbiamo effettuato alla Fonoprint di Bologna.

Come nascono i vostri brani?

Marco: Ogni brano di Solitari Blu ha avuto un tragitto particolare. Tuttavia è sempre molto importante il momento in cui suoniamo liberamente e cerchiamo di cogliere l’energia del suono che sostiene un pezzo. Lavoriamo tanto su quello che sperimentiamo suonando, registrando sempre tutto. Si tratta di cogliere e potenziare quei momenti di magia che si creano e che sono più autenticamente nostri.

Una band fiorentina, con etichetta e distribuzione della stessa città: come vedete la scena musicale a Firenze?

Guido: la scena musicale a Firenze è in ascesa rispetto a qualche anno fa. Certo il momento storico-sociale non è dei più entusiasmanti, però ci sono alcune piccole etichette che stanno lavorando molto bene, qualche locale ha riaperto e punta anche sulla musica originale e non solo sulle tribute-band, e, soprattutto, ci sono diversi gruppi che fanno bella musica e la fanno con convinzione. Mi piacciono Hacienda e Velvet score, che stanno ottenendo meritati riconoscimenti anche all’estero e, in tutt’altro genere, non posso non nominare i Petralana, dei quali ho curato la produzione.

Quanto e in che modo ha inciso il cambio di line up del gruppo?

Guido: è una domanda alla quale non so rispondere con esattezza. Ero molto soddisfatto dei risultati musicali conseguiti con Matteo, però negli ultimi tempi non andavamo più nella stessa direzione, gli obiettivi personali e di vita non erano gli stessi. Marco è stato un grande acquisto, probabilmente avremmo suonato assieme anche se fosse rimasto Matteo, perché era un po’ di tempo che pensavamo ad un secondo chitarrista. Sicuramente, comunque, l’ingresso di Marco ha dato una svolta agli aspetti legati alla composizione, mentre la mia vocalità è senz’altro distante da quella di Matteo, meno viscerale, anche se finora chi ha ascoltato il nuovo cd ha sempre ravvisato una continuità stilistica. In futuro spero che anche Giulia, che è entrata nel gruppo a disco già finito, dia il suo apporto in fase compositiva, soprattutto partendo dal suo strumento principale che è la viola.

In che modo Solitari Blu si differenzia dai vostri precedenti lavori e cosa avete invece mantenuto del passato?

Guido: gli elementi di continuità col passato sono anzitutto basso e batteria, che già caratterizzavano il nostro sound nei dischi precedenti, e poi il gusto per i break strumentali. Il suono è molto più curato: avevo le idee chiare fin dall’inizio su come impostare la registrazione, anche in base alle esperienze passate. Determinante è stato poi l’apporto in fase di missaggio e produzione di Ernesto De Pascale: assieme abbiamo fatto delle scelte, in fase di mix, in funzione di ottenere un sound analogico ma non retrò. Le differenze maggiori sono secondo me una maggiore importanza data alle chitarre acustiche e una vocalità più distaccata, oserei dire più sobria, soprattutto rispetto a “Vertigine”.

Durante i vostri concerti vi attenete all’esecuzione dei brani della vostra scaletta o vi piace sperimentare, lasciando spazio ad improvvisazioni strumentali?

Marco: Abbiamo una forte inclinazione all’improvvisazione. Cerchiamo sempre di lasciare degli spazi aperti in tal senso, che convivono con parti che invece vivono sulla precisione degli arrangiamenti. Questo perché crediamo sia importante mantenere un equilibrio nella comunicazione con chi ascolta. In fondo è la stessa concezione che sta alla base del disco.

Foto: copertina di Gianfranco Chiavacci

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