Un percussionista che volentieri utilizza l’elettronica per affinare le proprie composizioni.

Un percorso sonoro che lo vede protagonista insieme a grandi nomi della scena nazionale come Ornella Vanoni, Enrico Capuano, Peppe Servillo, Peppe Voltarelli, Raiz e non per ultimi i 99 Posse.

Incontriamo al microfono di Patrizio Longo il percussionista Gennaro de Rosa per raccontare di un lavoro che si esprime attraverso un melting-pot di culture ritmiche e stili le capacità espressive di questo artista.

Il progetto s’intitola Mandara ed è al suo terzo capito dall’omonimo titolo. Come nasce questo lavoro?

Il terzo lavoro del progetto Mandara è omonimo non a caso. Con questo terzo capitolo volevo chiudere una trilogia partita con “Bisanzio” del 2001, proseguita poi con Alatul del 2004. In realtà Mandara è un disco che raccoglie un po’ tutte le esperienze fatte in questi anni trascorsi dal secondo capitolo ad oggi c’è dentro tutto il mondo che ho visto e vissuto, una raccolta di esperienze e di emozioni con un unico denominatore che è fondamentalmente il “viaggio”, in senso lato. Da quello interiore fino al viaggio vissuto realmente. Un disco nel quale, a differenza dei precedenti ho voluto sperimentare il mondo delle parole, essendo anche meno “criptico” rispetto ad Alatul.

Cosa eredita dal precedente lavoro Alatul questo nuovo?

Credo che Mandara sia la prosecuzione naturale di un percorso che si era intrapreso con Alatul. Il precedente lavoro era una sorta di viaggio sonoro fino ai confini del Mediterraneo, questo terzo ne è il completamento. Un viaggio che mi ha dato l’opportunità di crescere sia dal punto di vista artistico che professionale attraverso collaborazioni come i tour europei con Il Parto delle Nuvole Pesanti, gli spettacoli teatrali con la compagnia Kripton di Giancarlo Cauteruccio, l’esperienza di Pentole&Computer con Marco Messina e tantissime altre. Potrebbe essere una sorta di cartina tornasole dei colori e degli umori dell’animo di un musicista, che dopo aver girato in lungo e in largo, incontrando artisti di ogni genere, nazionalità, estrazione e lasciandosi rapire da suoni, luoghi, linguaggi e stili quanto mai disparati, riporta tutte queste esperienze a casa e ne fa materia sonora. Potrebbe essere il mio “Milione”.

Mi racconti del tuo incontro con Marco Messina, cosa ti ha regalato?

L’incontro con Marco è stato, voluto e cercato. Ci siamo conosciuti in occasione del missaggio di Alatul e da allora, probabilmente le affinità elettive ci hanno portati a condividere un viaggio insieme che ancora dura con Pentole & Computer, che si è rafforzato nell’esperienza di questo tour e della reunion che ho condiviso con i 99 Posse, che è stata un occasione di grande crescita. Marco mi ha dato la chiave per leggere la musica elettronica nel giusto modo. Mi ha dato gli strumenti necessari per capire, osservando il suo modo di lavorare con i suoni “di scarto”, come ama chiamarli lui, di come la composizione elettronica abbia una dignità pari a quella classica e più ortodossa e che l’elettronica, per chi non fa questo tipo di musica, è un valore aggiunto, se dosata ed usata nel giusto modo ad ogni tipo di composizione e di creazione musicale. Credo di essere stato positivamente influenzato, da Marco per intraprendere un nuovo percorso che ha unito il suo mondo quello della musica elettronica con il mio delle percussioni. Mondi che sembrano inavvicinabili e lontanissimi ma che invece convivono e si sposano fondendosi e Pentole & Computer è la creatura nata da questo incontro!

Hai anche partecipato a spettacoli teatrali, quali le difficoltà incontrate rispetto al palco dei live?

Proprio in questi giorni sono in giro con uno spettacolo teatrale che sta facendo moltissime repliche in molti teatri italiani. È la Medea (la tragedia Greca) nella versione drammaturgica di Corrado Alvaro e rivisitata da Giancarlo Cauteruccio regista della famosa Compagnia Krypton. Il teatro è una dimensione che amo tantissimo, credo sia, forse, la dimensione che più mi aggrada. Sicuramente per gli strumenti che suono, che in un contesto come questo acquisiscono un ruolo importante e se ne colgono tutte le sfumature e la gamma timbrica che questi strumenti hanno ed il potere evocativo che ogni suono contiene. Quindi per il teatro e la musica per immagini è l’ideale, rispetto al palco dei live, ai concert dove c’è una differenza sostanziale, nell’approccio nei tempi e soprattutto nei volumi. Ti ripeto, tutte le esperienze fatte in teatro con la Krypton negli spettacoli di Cauteruccio, con Ornella Vanoni, con Virginio Gazzolo e Tuccio Guicciardini oppure quegli dalle scena verticale per le musica di un AIACE in chiave mafiosa a quelli un po più sperimentali fatti con Marco Messina insieme a Raiz, Peppe Servillo sono sempre stati soddisfacenti da ogni punto di vista. Non ti nascondo anzi te lo ribadisco che quella del teatro e della musica da colonne sonore (che tra l’altro ho fatto anche per il cinema con Peppe Voltarelli (La vera leggenda di Tony Vilar) è la dimensione che preferisco.

Mandara è un lavoro che guarda ai suoi delle culture del Mediterraneo e dell’Oriente ma dove il punto di incontro?

Mandara cerca di essere un po’ cosmopolita nel rapportarsi ai suoni ed alle sonorità del mondo. I suoni del mondo sono un po’ il background di questo progetto, che non disdegna di puntare o tendere l’orecchio verso sonorità completamente differenti. Ritengo che nella musica di Mandara non ci siano paletti ne geografici, ne politici ne di nessun altro tipo è un esperimento di “musica globale” non globalizzata. Cerchiamo di far convivere nella nostra musica tante schegge di mondo, con l’idea che se questa convivenza è possibile in musica si possa inserire nei solchi di un disco e possa essere attuate nelle pieghe del tessuto sociale.

Come nasce questo progetto e cosa significa “Mandara”?

Mandara è una parola di origine sanscrita e si trova nel “sutra del loto” è una immagine ben augurale una sorta di figura allegorica che indica il momento di gioia ed illuminazione. In pratica è una pioggia di fiori. Quella che per i cattolici è la manna dal cielo, per intenderci.

Quali le partecipazioni a questo lavoro?

Tantissime e tutte differenti tra loro. Intanto quello che considero il “secondo Mandara”, Gianfranco De Franco, poi Marco “Posse” Messina (che ha missato tutto il disco con il suo approccio), Peppe Voltarelli del quale è riconoscibilissima la vena poetica nelle parole di “Apfelsaft”, il sassofonista Marco Zurzolo in “Yallah”. Poi altri ancora: Amy Denio, una incredibile musicista e cantante della scena alternativa statunitense (è sua la voce in “Wind Song” e “Hassan I Sabbah”), il rapper Kiave (voce in “Wind song”), l’intera orchestra di fiati della Città di Corigliano (autrice di una coda nel finale di “The pot head pixies”), Lino Vairetti (leader degli “Osanna” e voce in “L’uomo”), il musicista tunisino Marzouk Mejiri (voce e percussioni in “Tiiri tiiri”), Alessandro Castriota Scanderberg e l’attore-cantante statunitense Jay Bethay Simba (voci in “B.B. the Kings”) e Narajan Chandra Adhykari, musicista del bengala, esponente del movimento Baul (voce in “Shundor Naya”). Inoltre ricordo Gigi Borgogno, Giacomo De Rosis, Massimo Garritano. Mi fermo perché nel disco suonano più di 40 musicisti ed è una cosa che vorrei conservare anche nei prossimi eventuali lavori. Lo scambio è la condivisone credo siano gli ingredienti fondamentali ed utili a dar fuoco alla creatività.

Non è un disco di world musica ma di combat-folk, in quali termini?

Io non credo sia un disco combat folk però se tu mi dici così. Ci penso su! Di certo non è un disco di world music. Soprattutto perché non amo questo termine che tende a catalogare cose molto differenti tra loro in un unico gran calderone. La world music non esiste. Esistono tante espressioni differenti del mondo. Che non so per quale motivo, credo per una tendenza a facilitare la catalogazione, siano state definite con questo nome! Se capita a chiunque di andare in un negozio di dischi e dare uno sguardo allo scaffale della world music. Può trovare i lavori degli Inti illimani vicini a quelli del coro delle voci bulgare. Addirittura un disco di Ricky Martin vicino ad uno degli Embryo o dei cori eschimesi e delle mondine! È un po’ come mettere nella stessa cassetta arance, patate, mele e finocchi ed esporle in un supermercato. Crea sicuramente confusione. Poi nei dischi ci può essere ogni tipo di fusione ma la catalogazione cosi dozzinale ha messo un nell’angolo questo tipo di espressione musicale.

Foto: Chiara Chiodi

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