È un punto di riferimento della musica italiana, ha scritto e collaborato con i più noti della scena nazionale. I suoi testi fotografano una società in continuo cambiamento.

Ha calpestato i palcoscenici dei più rappresentativi festival da Sanremo al Premio Tenco di cui recentemente ha anche prestato la voce per la realizzazione di un Cd di inediti. Non è solo un paroliere è anche uno scrittore e poeta contemporaneo con all’attivo diverse pubblicazioni. Un uomo che racconta le proprie emozioni attraverso la parola nelle sue differenti forme espressive dal canto alla scrittura all’insegnamento.

Al microfono di Patrizio LONGO incontriamo il professore Roberto Vecchioni che sta promuovendo il disco In-Cantus e il libro e Scacco a Dio espressioni di racconti fra musica e poesia. Bentrovato Signor Vecchioni!

Buonasera Patrizio, grazie per la chiamata!

Iniziamo a parlare di In-Cantus un progetto fra musica e poesia. Quanto le piace sperimentare?

Tantissimo, credo che sia la cosa più importante. Vede, c’è una specie di elemento ricorrente nella mia vita: mi stanco subito della ripetitività. Voglio sempre fare qualcosa di nuovo. Anche nella canzone d’autore, ogni disco è sempre stato più vario di quello di prima. Poi, diventando vecchio, ho pensato: «Adesso basta con le melodie da musica leggera, per quanto si cerchi di farle alte.» Così ho provato il jazz, ho fatto due anni con Fariselli e Dalla Porta, centoventi concerti. Adesso invece provo il sinfonico, e non è una presunzione o un’assurdità: è un modo di provare che, fatto con dignità e umiltà, ha un valore emozionale che può arrivare a tutti. Soprattutto se le parole sono di adesso, di oggi, moderne, e parlano dell’umanità e del mondo.

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Perché la scelta dei live, per la presentazione di questo lavoro, in un ambientazione come la Chiesa?

Perché era la più adatta. Non perché siano canzoni religiose: io sono un laico credente, come ho detto più volte. Sembra una contraddizione, ma è vero: io credo all’uomo, qui su questa terra, prima di tutto. Poi, semmai, anche a qualcosa lassù. La chiesa, però, ha l’atmosfera ideale, perché queste canzoni parlano di una specie di preghiera, di una specie di perdono chiesto dall’uomo, a qualcosa che non sa. Alla ricerca di qualcosa che sia oltre la materia, oltre le sciocchezze di tutti i giorni. E Poi parlano di amore, amore per tutti. Quindi i primi concerti li abbiamo fatti in chiesa, in delle cattedrali molto belle, per poi continuare normalmente in piazze e, soprattutto, castelli, arene e torri medievali. E poi abbiamo registrato per farlo uscire prima di Natale.

«Un lavoro dal carattere spirituale, si diceva, con una visione laica». Mi commenta questa affermazione?

Nel disco c’è una bellissima lirica di Gasman, che la spiega bene. Si intitola A Dio, ed io l’ho scelta e voluta – ho chiesto ad Alessandro ed agli altri eredi il consenso di musicarla ed includerla, e ne sono stati molto contenti perché è la proposizione più vera di questo disco. Se io un giorno incontrassi Dio in treno, come nella canzone successiva alla lirica di Gasman, non gli chiederei di portarmi in paradiso: gli chiederei di lasciarmi in mezzo agli uomini, anche a soffrire e a piangere, perché questo è il mio “atto di vita”, adesso. Ora devo capire cosa c’è qua, quello che c’è là viene dopo. Questo è il senso di “laico credente”: dentro l’animo sono illuminista, laico, credente nella ragione dell’uomo e nei suoi sentimenti. Solo in seconda battuta credo che dopo ci sarà qualcosa.

Con il filo conduttore della religione, parliamo del libro Scacco a Dio, per Einaudi. È il suo ottavo lavoro: c’è un filo conduttore che lega questo con i precedenti scritti?

Sì, la narrativa che ho tirato fuori dal ’94 in poi ha sempre lo stesso tema: quello della riappropriazione delle parole, dei concetti e delle idee. Capire cosa sono, e non limitarsi a usarle come moneta o merce di scambio. Sapere, quando si parla, cosa si dice e cosa si pensa, e quindi amare le parole e la comunicazione. Poi c’è la comunicazione più alta: quella della preghiera, che è comunicazione con Dio. È la comunicazione della domanda finale: c’è o non c’è? Siamo liberi o non siamo liberi? Cos’è la fede? Cos’è l’amore? Ho cercato di dare delle risposte che siano per lo meno sensate, certamente non teologiche. Anche perché il libro non è un mattone: è la divertente parodia del paradiso, con Dio e il suo angelo che litigano, ed anche la seria disanima di tutti gli uomini su questa terra che hanno tentato di ribellarsi al proprio destino.

In una società moderna dai tratti così aridi, si può ancora parlare di amore e rispetto fra gli uomini?

Credo che si debba remare indietro invece di andare avanti. Se lei appena esce da questa Europa frenetica, o dagli Stati Uniti, in altri posti c’è maggiore quiete. Si riesce ad apprezzare il rapporto tra le persone. In certi paesi del Sud America o dell’Africa, come in nel vicino e medio Oriente e nel Nord Europa, queste cose sono ancora vive. Si “sente” l’altra persona, si capisce che esiste, che vale. È veramente traumatizzante, secondo me, osservare che corriamo tanto da non ricordare più chi ci è vicino. Bisogna combattere per questo.

Quindi la musica come strumento di comunicazione internazionale?

Non tutta la musica, eh? (ride) Una volta sono andato a cantare a San Vittore, quando c’era ancora Tortora. Si ricorda Enzo Tortora? Fu accusato ingiustamente, tanti anni fa… Andai lì a presentare lo spettacolo, e lui, nella frenesia dell’evento, a un certo punto gridò davanti a tutti i carcerati: «Perché qui siamo tutti innocenti!» E io gli dissi: «Piano, Enzo, ci sarà qualcuno che non lo è…» (ride) E così è per la musica: non è che tutta la musica possa aiutare il mondo. C’è anche della musica che lo affossa.

Al microfono di Patrizio Longo con Roberto Vecchioni. Ripercorrendo la sua carriera quale aggettivo darebbe oggi?

Ne darei tre o quattro. Appagante, sicuramente. Consolatoria, frenetica e liberatoria.

Autore di canzoni e libri, dicevamo. Esiste una differenza fra parola scritta e cantata?

Sì, così come c’è differenza abissale tra parola poetica e parola comunicativa. Chiedere «Cosa mangi stasera?» è diverso dal dire «T’amo pio bove». (ride) Sono due cose diverse, eppure il mezzo è sempre uguale. Anche nella forma canzone e nella forma poesia scritta c’è una differenza. Due forme d’arte, ma la poesia è molto più libera e astratta, mentre la canzone è molto più concreta, più reale, molto più vicina alle persone. Intendo la canzone di De André, Guccini, Dylan, non la canzone in generale.

Il suo repertorio musicale è estremamente ricco di brani, ma c’è una canzone verso la quale nutre un affetto particolare. Quale?

Quelle per la persone vicine a me, a cui non son riuscito a dare proprio tutto quello che volevo. Come Figlia, che parla della mia prima bambina. Sono separato, e i primi anni l’ho vista poco, mentre adesso ci vediamo eccome. Oppure Le Rose Blu, che è l’ultima e che è per l’altro figlio, quello più piccolo. È una questione un po’ più triste, perché ha avuto dei grossi problemi di salute. Queste sono quelle che sento intensamente di più.

Parliamo del Festival di Sanremo. Solo tre apparizioni: nel 1968 come autore, nel 1973 con la canzone L’uomo che si gioca il cielo a dadi e, successivamente, dopo un lunga pausa, nel 2006 con i Nomadi. Una casualità o una scelta?

La più bella è stata sicuramente la terza, quella con i Nomadi, perché non c’era il grosso assillo della gara. E perché loro sono miei amici da tanto, e rappresentavano un pezzo di storia sociale e politica italiana. E lo facevano a Sanremo, che, bene o male, è una fiction, mentre loro erano persone vere. Poi la canzone era bella, era contro la guerra. Era molto semplice e popolare, e l’abbiamo cantata con molto piacere. Le altre… sono andato molte altre volte come autore, ma non ho firmato… andare come autore non è mai un grande delirio. Come cantante non mi sono accorto nemmeno di andarci: ho cantato subito e non c’era quasi nessuno in sala.

«L’artista sul palco è un gigante che quando scende diventa un nano». Parliamo del personaggio di quell’essere che fa il protagonista. Riprendo un suo vecchio commento dove affermava di voler scrivere un libro ma di non volerlo firmare. Lo ha fatto?

In realtà, quasi tutto il mondo artistico, soprattutto quello della canzone, non è come appare. E non appare come è. Purtroppo, quello che i media riferiscono è al 90% una serie di balle, per gonfiare o esagerare. Sono pochissimi i personaggi veramente uguali a se stessi, o almeno uguali a quello che vogliono dimostrare di essere. Sono moltissimi quelli che tengono solo ad aver successo e a sfavillare. Però, quei pochissimi che ci sono non sono male. Son bravi, e sono amici miei.

Non ha risposto alla mia domanda: il libro lo ha scritto?

No, non l’ho scritto. Sarebbe apparso, un libro di un anonimo che parla di queste cose. Si vede che non è ancora apparso.

In questi ultimi tempi si è tornato a parlare di omofobia, un argomento che lei ha affrontato nel 2002 con una toccante canzone: La Bellezza. Siamo un paese chiuso sulla questione?

Io penso da anni che gli italiani siano fondamentalmente conservatori e reazionari. Anche le forme più avanzate di sinistrismo, a parte rari casi, presentano sempre una concezioni del tipo «Io tengo al mio orto», «Io sto per i fatti miei», «Io penso ai cavoli miei». Io penso ai cavoli miei. Figurarsi poi con le persone che ti possono portare via il posto, confondersi con te durante la giornata. Sono pessimista, da questo punto di vista. Credo che tra gli italiani ci sarà una percentuale notevole di omofobi. E di omofobia in generale.

Il suo ricordo di Alda Merini?

Alda era una persona… io non so quanti la conoscessero. Noi qui parliamo per una comunicazione a un pubblico vasto, che forse non ha idea di chi sia Alda Merini e di chi sia stata. Non era il poeta a cui pensano tutti, quello che sta sulle nuvole e pensa ai fatti suoi, e poi ogni tanto si fa vedere. Alda era una poetessa in carne e ossa, viva e vivente… fisica. Una che si faceva sentire, telefonava anche di notte, ti diceva dei suoi guai, dei suoi amori. Si confessava continuamente, scriveva ovunque, su qualsiasi cosa le venisse a tiro: fazzoletti, armadi, da ogni parte. Perché il suo modo di parlare e dire era scrivere. Tutto ciò che le passava per la testa e per il cuore lo scriveva. E poi era una donna, nella sua vecchiaia, bella perché piena di dolori. Dolori, figli persi, manicomio… bisognerebbe andarla a ripercorrere, la storia di Alda Merini, che è una grande poetessa. Che significa che è meglio di un poeta, perché le poetesse sono più vere.

Lei ha scritto canzoni davvero per tutti: dai grandi nomi della musica italiana, alle sigle di cartoni animati, a personaggi lontani della scena. Com’è arrivata la proposta di scrivere l’inno dell’Inter nel 1971, cantata da un calciatore: Mario Bertini?

Credo che fu perché uno dei miei discografici di allora conosceva bene l’entourage dell’Inter. Gli disse che conosceva un interista che poteva scrivere il loro inno. E credo che fu il primo, per la loro squadra. Dopo ne anni fatti tanti altri, quello rimase in quegli anni. Tra l’altro, l’Inter aveva gli Altobelli, i Boninsegna, i Bertini… era competitiva. C’era un Mazzola piuttosto anziano, ma che giocava ancora. L’inno non è un granché, ma mi piaceva farlo.

Vorrei fare una classifica, anche se difficile, di alcuni dei suoi capolavori. Mi risponde con un aggettivo che esprime un suo sentimento?

Ci provo, perché non è molto facile… ne avrei tanti, di sentimenti, immagino. (ride)

Luci a San Siro? Crepuscolare.

Barbapapà? Economicamente importante. (ride)

Samarcanda? Misteriosa.

Sogna ragazzo sogna? Solare.

El Bandolero stanco? Lunare.

La Viola d’inverno? Finale.

Grazie a Roberto Vecchioni per aver raccontato questo percorso di vita. A presto! Buonasera, Patrizio, e grazie per la chiamata!

Ascolta intervista audio a Roberto Vecchioni

Foto Copertina: Alessio Pizzicannella

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