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Incontriamo Manuel Agnelli leader di Aftherhours. Una figura eclettica, geniale, non da mai nulla per scontato. Con Aftherhours hanno segnato un segmento importante nella storia della scena “underground” italiana degli anni ’90.

Nel 2006 al nostro microfono si raccontava Giorgio Prette altra figura importante del progetto.

Sta per essere pubblicato il loro nuovo Dvd ed al nostro microfono Manuel racconta l’esperienza vista attraverso la propria espressività artistica mai scontata.

Alcune domande per ripercorrere la carriera di Afterhours. A tuo avviso quale traccia avete lasciato nella scena della musica underground italiana degli anni ’90?

Non credo di essere la persona giusta per rispondere a una cosa che ci riguarda così direttamente. Sicuramente abbiamo fatto la strada con tanti altri gruppi, tanti altri progetti che hanno cercato una propria dimensione, molto dinamici e che hanno contribuito ad aprire delle strade e a diffondere l’idea di una musica diversa da quella che viene ascoltata sui network, questo sì, insieme però a tanta altra gente, non lo abbiamo fatto da soli.

Cosa intendi quando in riferimento al linguaggio parli di "laboratorio, sperimentazione della parola", lontano naturalmente dai contesti canori? Abbiamo apprezzato molto le tue interpretazioni di reading dove leggi alcuni testi abbinandoli a dei tappeti musicali.

Non voglio avere la presunzione di fare un lavoro sulla parola programmatico, semplicemente quello che c’era stato nella musica in Italia a livello di parola probabilmente era invecchiato e invecchiato un pò male per cui dalla generazione dei cantautori non ci si era staccati molto a livello testuale, perciò per noi è stata un’esigenza quella di approcciarci all’italiano in una maniera differente e lo abbiamo fatto in maniere alcune volte anche molto grezze, alcune volte mal riuscite ma secondo me anche in quel caso in maniera abbastanza vitale. Poi l’interesse per la parola trascende le canzoni ma nessuno di noi vuole avere la presunzione di fare questo lavoro vero e proprio sulla lingua, è lo stesso lavoro che viene fatto dai ragazzi nelle scuole o nelle strade etc. : cercarsi un linguaggio proprio che possa esprimere alla perfezione quello che uno vuole trasmettere e in questo modo quotidianamente modificare la lingua, che vuol dire anche peggiorarla certe volte.

Oltre che cantante sei anche autore dei testi. Dove nascono e soprattutto con quale stato d’animo viene scritto un testo?

Ci metto tanto a scriverli, un testo lo scrivo quando ho qualcosa da dire perché per me resta la cosa più importante che ho a livello espressivo, il linguaggio che ho sviluppato che mi si avvicina di più e più mi si confà, per cui il problema è che io sono uno di quelli che aspetta un pò di avere qualcosa da dire, non ho un " mestiere " di scrivere i testi. E’ anche vero , però, che quando c’è qualcosa da dire è anche facile scriverli i testi perché c’è un’urgenza che ti porta ad avere anche la necessità poi di scriverli. Il Cut-up è un metodo di taglia e cuci che abbiamo adottato da qualche anno, anche se ultimamente l’ho abbandonato è stato molto importante perché mi ha dato una visuale molto più laica della creatività per cui anche lì sono in grado adesso di scrivere senza considerare ogni parola che mi viene dall’ispirazione come una parola sacra e e riesco forse a scrivere un pò meglio adesso.

Hai una pubblicazione editoriale all’attivo dal titolo "Il meraviglioso tubetto". Cosa ha di meraviglioso questo tubetto, un’affermazione apparentemente agli antipodi?

Di meraviglioso ha che semplicemente è stata una scoperta e come tutte le scoperte che ti rimettono in gioco e ti fanno pensare diversamente a te è meravigliosa. Non è riferito nè all’oggetto in sè nè alla funzione dell’oggetto ma al fatto che quest’oggetto ha rappresentato la nuova scoperta di sè.

Diamo uno sguardo al passato. Rispetto alla vostra pubblicazione "Quello che non c’è" di Mescal 2002, cosa è cambiato artisticamente e anche concettualmente con i nuovi lavori?

Abbiamo cercato di fare degli album in teoria da "Quello che non c’è " che fossero un pò più compatti musicalmente perché noi eravamo abituati ad avere degli album abbastanza " eclettici " all’interno del rock ma con degli elementi molto distanti tra di loro, invece con "Quello che non c’è" e con "Ballate per piccole iene" abbiamo cercato di compattare un pò la situazione musicale. Non è detto che il prossimo album sia così, da quello che posso dire al momento, perché stiamo lavorando già sul materiale nuovo, torneremo ad essere abbastanza eclettici. L’esigenza però c’era di fare degli album che avevano comunque una direzione molto forte, granitica a livello di contenuti e quindi anche musicalmente volevamo rappresentare questa cosa.

Viviamo in un tempo forse povero di valori, quanto incide questo sul concetto di nazione, parola che spesso troviamo ripetuta all’interno dei testi delle vostre canzoni?

Non so se è per la povertà dei valori o per il fatto che l’Italia non ha ancora l’abitudine di considerarsi una nazione, lo dico nella migliore delle accezioni, non il concetto di bandiera, di nazionalismo ma di nazione come identità comune, il sentirsi parte di una stessa cosa. Credo che sia molto difficile da realizzare, che in Italia non sia una cosa semplice, breve, veloce. Lo Stato è sempre stato visto come un nemico qua e questo in alcune canzoni cerco di sviscerare dando la mia versione dei fatti, la mia versione delle mie emozioni e delle mie sensazioni, non voglio essere nè teorico nè scontato insomma.

Lo scrivere per te rappresenta un modo anche per interpretare il proprio ego, il proprio pensiero intimo?

Assolutamente si. Credo che anche l’ego ha sempre avuto un’accezione negativa in Italia, essere egocentrici, egoisti, certo gli eccessi sono negativi però non c’è niente di male nell’ego, non c’è niente di male nell’averne uno, nel coltivarlo, nell’essere coscienti e anche nel godersela questa situazione. Sicuramente già fare musica, salire sul palco davanti a tanta gente a raccontare le tue cose è una posizione che non credo possa essere meno che egocentrica insomma. Mi fanno ridere quelle persone che dicono che bisogna essere umili come artisti, è una contraddizione in termini. L’artista deve avere la libertà più grande di esprimere sè stesso al cento per cento con la maggior sincerità e con la maggior potenza possibile, questo include un forte ego, una forte coscienza nel proprio ego, non una forte umiltà e il concetto di umiltà in Italia secondo me è sempre stato usato in maniera cattolica, non parlo di religione ma proprio di questo sentirsi schiacciati, piccoli, piccole formichine che devono stare al loro posto e non osare più di tanto e questa cosa, soprattutto artisticamente, ha limitato molto la crescita dei talenti in questo periodo. Per me questa è una peste da sradicare in tutti i modi, dobbiamo essere orgogliosi di quello che facciamo, dobbiamo portarlo avanti con convinzione e dobbiamo essere, perché no, anche abbastanza egocentrici da godercela questa cosa.

Ascolta intervista audio a Manuel Agnelli – Afterhours.

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