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Incontrare persone come Enrico Ghezzi ti permette di capire il vero significato di Comunicazione. Tutti siamo più o meno bravi nell’Arte oratoria. Pochi riescono a trasmettere messaggi compiuti. Sono da poco trascorse le 15.30. L’ora in cui in Enrico Ghezzi ha depositato attraverso la sua voce alcune osservazioni sulle domande poste. Si è discusso sul significato della parola “Comunicare”. A seguire i nuovi strumenti come I-Pod che stanno stravolgendo il sistema della comunicazione. Non poteva mancare un richiamo a Stanley Kurbrik di cui ha scritto un prezioso volume. “Retoriche occulte” è stata la fermata successiva…. In conclusione della nostra conversazione alla domanda: Se non avesse vinto il concorso in Rai Tre per programmista 1978 cosa avrebbe voluto fare nella vita?

Enrico mi risponde: Io non avrei voluto fare nulla….. Per me la vita è una sorta di gioco e avrei voluto solo e spero mi sia avvenuto, riuscire ad amare ed essere innamorato per quanto sono o sono stato amato…

Le nuove tecnologie, ci riferiamo in particolare all’i-Pod, sembrano minacciare i network televisivi, che vedono un calo dei propri ascolti. Che ne dice?

Innanzitutto devo smentire un paio di cose: non sono un esperto di comunicazione, anzi cerco di occuparmene il meno possibile; la “comunicazione” è una parola impronunciabile, rispetto a “comunione”, “amore”, parole ugualmente impronunciabili tra l’altro… Ciò detto, comunque, rispondo alla domanda: ognuno di noi oggi ha la possibilità di essere un programmatore di palinsesti video-musicali, ma è necessario comunque che esista una intelligenza “vetero-editoriale” che metta insieme i diversi contributi per organizzarli e proporli. Esattamente come ciascuno di noi fa quando organizza una playlist con il proprio iPod. La televisione, invece, non ha senso di esistere se non per il “mito della diretta”, ma la diretta con i telespettatori non con l’interlocutore, per essere in diretta con il quale basterebbe il telefono. L’unico senso che hanno gli eventi mediatici odierni, dal nostro patetico Sanremo alle grandi dirette sportive, non è la qualità di quanto è trasmesso, ma solo quello di “essere in tanti” a guardare qualcosa.

Visto che abbiamo citato Sanremo…?

Non posso esprimermi molto perché da mesi non a casa non mi funziona il televisore, ma ho apprezzato – da un punto di vista politico, e non so se sia capitato per gli stessi motivi virtuosi che a me piacerebbero – che questa edizione non sia stata così pubblicizzata come le precedenti. Gli altri anni si parlava di Sanremo da mesi prima, quest’anno ci si è arrivati senza quasi accorgersene. Tra l’altro si sono avuti dei buoni ascolti, quindi non credo sia stato un insuccesso, anzi.

Il suo tratto caratteristico quando compare in televisione è il fuori-sync (N.d.r. l’arte di non far coincidere l’audio con il movimento delle labbra di chi parla)…?

Beh, intanto non sempre. In ogni caso, è nato in modo casuale, è stato un problema proprio di trasmissione di immagini ed audio tra due studi lontani quando abbiamo spostato o studio dove registravamo rispetto a quello in cui montavamo. Poi è stato adottato come sistema, come divertimento fanciullesco. E’ divertente il fatto che sembri complicato, che sia difficile, oltretombale… invece basta ascoltarlo con gli occhi chiusi, oppure da un’altra stanza, e si perde tutto l’estraniamento causato dalle immagini.

Ha scritto un apprezzato volume su Stanley Kubrik. Un aggettivo per identificare Kubrik?

Paranoia creativa. La paranoia dell’autorialità e del controllo. E’ commovente, ammirevole, straordinario, giusto. Ed è curioso che il suo ultimo film “Eyes Wide Shut” , stupefacentemente bello, sia invece un film che lui non ha potuto controllare fino in fondo. La versione che noi vediamo è quella destinata al solo pubblico degli addetti ai lavori, dei produttori… è solo una delle versioni che Kubrik faceva di ogni film; ne faceva decine, di cui alcune proposte anche al pubblico, prima di arrivare a quella definitiva. Questo incrina, ma allo stesso tempo completa la sua ossessione per il controllo.

“Retoriche occulte del cinema”. Cosa intende quando ne parla?

La “retorica”, contrariamente al connotato negativo che solitamente le si dà intendendo un discorso vuoto e roboante, la vedo come un valore positivo. Le parole “alte”, che si sovrappongono alla realtà ma che non necessariamente la costituiscono, sono una “parte del mondo”. Le “retoriche occulte nel cinema” costituiscono i milioni di codici sottointesi che esistono all’interno di qualunque immagine. Di un film noi crediamo di conoscere la tecnica, la narrazione, la fotografia, i temi… ma non è così. Io dico che in “Sentieri Selvaggi” di John Ford c’è più storia dell’arte che in tutto il Louvre o negli Uffizi. Il motivo è che nel cinema nessuno è mai “regista fino in fondo” (anche se un pazzo come Kubrik ci prova, ma non ce la potrà mai fare), perché il regista è la parodia di un “regista del mondo”: chi fosse veramente regista dovrebbe poter decidere lo spostarsi delle nuvole, lo stornire degli alberi, il vento, la luce. E quel immagine comunque parlerà, anche ad un bambino – e dico un bambino perché apparentemente ha meno codici linguistici – provocandogli un trauma, un godimento… ma cosa susciterà un’immagine non lo potremo sapere mai del tutto; magari ne sapremo sempre di più, ma mai fino in fondo. In questo senso parlo di “retorica occulta del cinema” Per quanto riguarda la letteratura, un esempio è costituito dal “mito di Pasolini”: quando Pasolini dice “Io so” (chi comanda in Italia, i mandanti delle stragi, il potere nero…), la forza dell’affermazione gli deriva non da quello che effettivamente sa, ma dal modo con cui lo dice. E’ questo che si sottovaluta in Italia, la “retorica occulta”.

Se non avesse vinto il concorso da programmista a Rai 3 nel 1978, cosa avrebbe voluto fare nella vita?

Mah, la vita l’ho sempre vissuta come un gioco, e l’unica cosa che avrei voluto fare e che spero di aver fatto è quella di riuscire ad amare ed essere innamorato per quanto sono e sono stato amato. Quello che avrei voluto fare lo faccio, ma non nel mio lavoro, vivendo: mentre vado in vespa ed una parte di me canticchia, ed un’altra parte di me pensa a qualcosa di ossessivo… è come se ripensassi il mondo. Ecco, la cosa che avrei voluto fare e che faccio è “pensare”; ma non nel senso “pensoso”, nel senso di “pensare facendo”.

Ah, mi viene in mente una cosa su Sanremo: l’altro giorno sono capitato con Battiato, che mi ha quasi teso un tranello, nel programma radiofonico di Fiorello ed è venuta fuori questa idea: gli ho detto che dovrebbe condurre Sanremo dalla radio, cioè stare a Roma o in Sicilia a casa sua e da lì presentare il festival, lasciando sul palco al massimo la valletta. Ecco, spero che lo facciano.

ascolta intervista audio a Enrico Ghezzi: Parte 1.

– Parte 2.

One thought on “Intervista a Enrico Ghezzi”
  1. Le parole di Ghezzi mi
    Le parole di Ghezzi mi creano sempre una vertigine intellettuale, mi fanno tremare la terra, anzi me la tolgono da sotto i piedi… Questa sensazione mi crea anzitutto un vuoto, come se perdessi la capacità di parlare a mio nome, di parlare in assoluto. Il discorso sulla retorica come incastro-ricerca di parole alte (che non esistono, le dobbiamo creare, comporre-scomporre, come un Frankenstein messo insieme da pezzi di cadaveri, che non riesce a stare al mondo perchè non ha le parole) da associare alla realtà, mi sembra l’unico tentativo che abbiamo di poter trasfigurare questa realtà senza per questo essere registi (e famosi), senza poter pensare arrogantemente di poter controllare il senso delle nostre parole (Kubrick) e di quelle degli altri. Forse non rimane altro che ricambiare un amore, innamorarci a nostra volta, e da innamorati abdicare alla parola, guardarci e guardare gli occhi dell’altro per cercare (forse) un mistero…

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