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Ivan Segreto, é figlio del profondo sud siciliano. Sciacca é la cittadina in cui é vissuto, circondato da una famiglia numerosa.

Il casale vicino al mare in cui i nonni, i loro otto figli e uno stuolo di nipoti si ritrovano ogni anno per il periodo dell’estate, fa da sfondo alle prime passioni musicali di Ivan.

Figura fondamentale é quella dello Zio Nino, che catalizza l’attenzione di tutti inventando canzoni, accompagnandosi con la chitarra nelle lunghe serate estive. Lo Zio Nino é anticonformista, ha girato il mondo come artista di strada ed é inevitabile che Ivan, appassionato studente di pianoforte classico presso i migliori Maestri del luogo fin dall’età di nove anni, ne subisca il fascino e ne raccolga l’eredità artistica. Una eredità che diventa reale, attraverso le note di una canzone che lo Zio Nino compone quando Ivan é ancora un ragazzino, e che il nipote elabora e re-inventa dopo che un incrollabile amore per la musica lo porta a percorrere strade nuove: quelle del jazz.

Alla ricerca di un ideale punto d’incontro tra le passioni e la concretezza del vivere quotidiano. Il secondo lavoro del crooner “Fidate Correnti” è la prova della classe dell’Autore. Un clima fra jazz e “tentazioni d’autore”. Raffinato compositore Ivan Segreto si racconta ai microfoni di EXTRANET.

C’è chi ti ha paragonato a Paolo Conte, o a Battiato. A chi ti senti più vicino?

Mah, mi sento ancora un po’ troppo giovane per sopportare anche solo l’idea di essere accostato a personaggi di questa statura e levatura. Tutti e due gli universi mi piacciono parecchio, ma forse quello di Conte mi è più familiare.

Quali le differenze nel tuo secondo lavoro (che ha vinto il premio per il “miglior album di artista debuttante” nel 2004) rispetto al primo?

Intanto la voglia di realizzare un progetto molto più snello: tutto il disco è suonato in trio – formazione che rende molto più snelle le dinamiche di gruppo – e registrato in presa diretta. E sicuramente c’è una maggior consapevolezza rispetto ad una direzione: questo secondo disco è più maturo dal punto di vista della messa a fuoco di una mia identità personale e della mia relazione personale con l’Ivan Segreto “personaggio”; sono convinto che questo è uno sviluppo che mi porterò dietro ancora per molti anni e molti dischi. Questo secondo disco è un disco di passaggio, che traccia le direzioni per quello che potrà essere il terzo lavoro. Sono “in cammino”, quindi, sto “battendo la strada”…

E la “ghost track”?

Sì, non è proprio una vera ghost track, sono solo venti secondi di musica, tutti giocati sulle tracce in “reverse”: il basso viene percosso con dei bastoncini, dei pezzi di corda rotta, ed anche lo stesso pianoforte si sviluppa in reverse grazie all’utilizzo di un campionatore. È stato uno dei brani che ha permesso un incontro musicale ed un sodalizio molto forte con Daniele Camarda, il bassista della situazione… mi piaceva l’idea, il suono e l’effetto che dava questo brano in reverse, ulteriormente in reverse. L’effetto è molto suggestivo.

Quali i tuoi ascolti?

Gran parte jazz, poi Youssou N’Dour, Radiohead, Sting, Pino Daniele, Paolo Conte, Vinicio Capossela… tutta musica fatta con un certo “criterio”.

Tu vieni dalla Sicilia. Ti ha influenzato le tradizione del Sud?

Sì, e me ne porto dietro alcuni caratteri molto forti, sinceri ed indelebili (io ho vissuto in Sicilia fino a 25 anni): sicuramente i tratti malinconici del mio carattere vengono dalla mia terra.

Parole tue: ”Solidarietà e ritmica che parte dal cuore”?

Innanzitutto, in questo secondo disco ho fatto il passo di fare anche il produttore del disco – ed in questo cammino mi ha aiutato Matti, che lo ha coprodotto con me – ed ho scoperto che quando si produce un disco e si decide di dare una direzione al lavoro c’è un valore molto forte di solidarietà tra i musicisti. Questi tendono a riflettere sul modo in cui suonare un disco, il produttore deve vedere anche un po’ in prospettiva. Ho scoperto felicemente che il lavoro di collaborazione e cooperazione esiste a tutti i livelli e trascende anche la musica. L’uomo ha bisogno di tutti, ha bisogno degli altri. Ciascuno di noi sfrutta la vita degli altri, e gli altri sfruttano la sua. Io ho voluto fare un disco dedicato a questo atteggiamento ed al coraggio delle scelte. È un abbandono alle correnti della vita, alle intuizioni, ai colpi di coda, a tutto quello che tu senti necessario per raggiungere un obiettivo.

Tecnica del “reverse”, ossia di registrare un suono e di farlo suonare al contrario…?

Non si tratta nemmeno più di sperimentazione, perché già un sacco di musicisti l’hanno utilizzata. Il fatto è che questa è una tecnica e, come tutte le tecniche, dà dei risultati direttamente proporzionati alla pertinenza. La bravura dell’artista sta nell’utilizzare le tecniche giuste per dare maggiore forza ad un messaggio. Io ascolto dischi anche parecchio “sperimentali”, ma è un concetto relativo… Nel mio disco ci sono delle situazioni che sono anomale rispetto a quelle che si possono trovare nel panorama italiano, ma non è un disco “sperimentale”; ci sono delle tecniche che sono difficili da innestare senza cadere nel banale e nello scontato. Io ritengo – e qui cade la mia modestia – di essere riuscito a contestualizzare queste tecniche ed il risultato è che il messaggio è prima di tutto coerente, ancor prima di essere interessante dal punto di vista timbrico.

Quanto ti definisci un “crooner” italiano?

È una definizione che mi sta stretta, ma posso capirla. Se ascoltassi il mio primo lavoro senza conoscere Ivan Segreto, anche io potrei essere di questa idea. Questo mio secondo lavoro mi dà più respiro… Per tracciare una linea hai bisogno di 2 punti: un disco rappresenta un punto, il secondo disco rappresenta il secondo, e se tu tracci una linea tra questi due dischi non credo che il risultato porti nella direzione del crooner. Io vivo molte contraddizioni interne: ascolto jazz, amo suonare il piano… Riconosco i limiti che si hanno nel portare avanti una tradizione jazz, ma per me è stata una scuola di vita ed il mio rapporto con esso è forse molto più profondo rispetto a quello che molti musicisti, che continuano a suonarlo, hanno. Il fatto che in questo mio secondo disco non ci sia nessun tipo di swing, nessun tipo di riferimento palese a quel tipo di universo, non significa che non ci sia quel tipo di imprinting. Per me è stato un po’ “prendere le distanze” da una parte, ma soprattutto guardare con ancora più rispetto quello che è stato, e che tuttora è, il jazz. E poi non dimentichiamo che io sono un italiano che fa musica in italiano, che viene dalla Sicilia e che il mio stretto contatto con la realtà è un altro. Sicuramente adesso sono in una fase di cambiamento, sicuramente avrò altre “scosse” di terremoto nel mio percorso musicale, ma non ritengo che sia giusto definirmi crooner.

Non dimentichiamo mai le origini?

La musica è un riflesso di te stesso: quando ascolti tanta musica, ma ancor più quando la suoni come professione, cerchi di trovare un’identità. E finisce che dentro le note ci finiscono tutti i tuoi umori, le tue angosce, i tuoi pochi riferimenti. In generale ascoltiamo tutti molta musica che viene dall’estero, perché indubbiamente è fatta bene: in Italia dobbiamo ancora crescere, soprattutto dal punto di vista della produzione, della messa a fuoco, dell’identità. Sono pochi gli artisti che hanno forte questa identità. Se uno ascolta tutto quello che la vita gli mette davanti, finisce per perdere i punti di riferimento e le proprie origini, il proprio baricentro. “Porto Magno” per me è stato proprio questo: la prima presa di consapevolezza. È stata una gioia immensa: cantare un brano jazz in dialetto è stato un po’ come andare dal mio “papà musicale” per dirgli: «Ho capito finalmente da dove arrivo e cosa voglio». Questa è stata una soddisfazione importante.

Ascolta intervista audio a Ivan Segreto.

 

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