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Un percorso che partendo dal punk si trasferisce a sperimentare attraverso la tecnologia del MIDI. Accompagnando così quella che durante gli anni ’80 viene definita la musica rock-progressiva con i CCCP, CSI, PGR.

Al microfono di Patrizio LONGO incontriamo Giorgio Canali per ascoltare questo percorso fra punk, sperimentazione elettronica e percorsi riflessioni personali.

Mi piacerebbe iniziare la conversazione con un personale commento a questa affermazione: “beati gli ultimi che saranno primi”. Cosa risponde Canali?

Da dove viene? Non lo so, sono ignorante… (ride) No, a parte gli scherzi: tutte le montagne di stronzate che sono scritte nel Vangelo non mi riguardano.

Un percorso da sperimentatore quello intrapreso, dalle sperimentazioni nella musica punk agli anni anni ’80, dove avviene l’approccio verso la tecnologia del MIDI. Come avviene il passaggio da cantante ad elaboratore di suoni?

Mentre effettuavo quel passaggio la mia spiegazione al riguardo era: «Siccome nessuno mi paga per ascoltare la mia musica, mi faccio pagare io per ascoltare quella degli altri.» Semplicemente questo. Ho cominciato a fare il fonico, il produttore, il trafficante di suoni.

L’incontro con la PFM sembra essere uno dei momenti principali della tua carriera professionale in quanto ti mette in contatto con I CCCP (1989). Quali le difficoltà incontrate nel relazionarsi con una band così “NUOVA” per quel periodo?

Non era poi così nuova. Li ho incontrati nell’88, quando erano già all’apice del loro successo ed alla fine della vita del loro gruppo. Ho collaborato con loro come fonico per il loro penultimo album, mentre nel loro ultimo album registravo, partecipando come chitarrista e bassista. Non era proprio una novità, anzi… per me è punk “vero”. Tra virgolette, perché al mondo di vero non c’è niente. A me risultava una sorta di copia conforme, italiotta, di quello che secondo me è il vero punk: i Crass inglesi, ad esempio, che non avevano niente a che vedere con la musica dei CCCP. L’unico atteggiamento era quello di Giovanni, sempre lì davanti, senza assolutamente sapere cosa stesse tecnicamente facendo. Quello era veramente punk. Era l’unica cosa veramente punk che ci fosse in quel gruppo.

Dai CCCP al periodo dei CSI. Ancora forte il sodalizio fra Zamboni e Ferretti. A tuo avviso perché si è concluso. Per le nuove scelte ideologiche di Ferretti?

No, direi di no. Semplicemente, come in tutte le coppie – perché di una coppia si trattava, non a livello sentimentale ma a livello etico e lavorativo – è sopraggiunta la crisi. Non è successo al settimo anno, come avviene di solito, ma un bel po’ dopo. Ad un certo punto, probabilmente, non si sopportavano più e basta. Non penso nemmeno che Massimo Zamboni sia così ostile alle attuali idee di Giovanni Lindo. Che poi per me non sono nemmeno “attuali”, perché credo che siano sempre state quelle. Conoscendolo da vent’anni, mi rendo conto di come il suo percorso abbia solo leggermente deviato da quello che è il suo essere integralista, di qualsiasi cosa si occupi. Soprattutto il suo essere un provocatore, prima di tutto.

Durante il tuo percorso c’è stato anche un periodo francese. Cosa hai percepito da quella scena musicale?

Una gran differenza da quella italiana. In Francia è possibile vivere di musica, ed è possibile farlo a qualsiasi livello. In Italia ritagliarsi uno spazio è molto più difficile: bisogna rubare terreno ai Gigi D’Alessio. In Francia ci sono gruppi, analoghi ad esempio ai nostri Afterhours, che in Francia vendono dieci, forse anche venti volte tanto. Un panorama, un atteggiamento diverso della gente rispetto alla musica attuale, e non alle porcherie che vengono dalla melodia italiana.

Adesso utilizzerò un termine che non amo. Parliamo di generi musicali: mi racconti la teoria degli ascolti?

Il genere è uno solo: c’è la musica e c’è quello che si vende nei negozi come mozzarelle al banco. Non è una questione di genere, è solo una questione di musica stupida e inutile, per le masse, e musica che fa pensare o che fa venire voglia di ascoltare, di capire quello che succede. Musica che ti fa sentire delle atmosfere nelle quali ti riconosci. Non è una questione di genere: dal reggae, che detesto, all’heavy metal, che detesto, c’è un sacco di roba interessante, che però non può diventare prodotto di massa.

Facevo riferimento alla tua dichiarazione dove affermi: «La musica “classica” mi fa furiosamente incazzare» e così via.?

La musica classica non è musica. Prima di tutto bisogna pensare a ciò da cui era foraggiata. Si tratta, in larghissima parte, di musica commissionata da qualcuno. Quindi possiamo considerarla “musica al metro”: si vende la musica come la pizza. Si taglia, si misura, si paga. La musica classica, purtroppo, per la maggior parte era fatta così. Certo, è facile farsi suggestionare da questo tipo di strumentazione, che a volte può sembrare magica. So di non essere popolare, dicendo questo, ma il popolino si fa gasare da violini, violoncelli, archi, timpani, corni inglesi… sembra di sentore il suono di Dio. Non lo so, la musica classica mi fa veramente cagare.
Lo stesso potrebbe dirsi per la contemporanea, per il folk per la musica etnica, anche quando affermi che ti piace mettere un disco nel lettore. Questo disco puzza sempre di elettricità.

Per forza di cose. Viviamo in un epoca in cui, senza la 220, non fai nulla. Mi sembra, quantomeno, un po’ forzato il voler essere a tutti i costi acustici, legati al proprio territorio. Io vengo dalla Romagna, e purtroppo quello che viene dal mio territorio è una deflagrazione di ciglioni: il liscio romagnolo è una roba insopportabile che, tra l’altro, rovina l’80% dei musicisti di quella zona perché, per sopravvivere, la maggior parte di loro fa l’orchestrale di liscio. Quando vivi in questa maniera, purtroppo è difficile che tu riesca poi ad affrancarti ed a raggiungere un altro livello percettivo della musica.

Adesso veniamo al presente i PGR sono tornati per l’ultimo lavoro con il disco intitolato Ultime Notizie di Cronaca. Un disco, a mio avviso, scarno nei suoni, dove sembra riaffiorare un sempre più estremo Ferretti. Il tuo personale apprezzamento sul lavoro?

Avendo, per la prima volta, tirato io le redini di tutto questo lavoro – finora era sempre stato Gianni a fare da trascinatore dei lavori di CSI e PGR – non può non piacermi. Lo sento molto più mio e secondo me, e credo anche secondo Giovanni e Gianni, è la cosa migliore che abbiamo fatto insieme.

Chi ha deciso questo titolo?

I titoli, come i testi delle canzoni, sono tutti appalto di Lindo. È lui che dà la linea, come è lui che sceglie di cosa parlare. Ed è lui che ci mette la faccia, perché nessuno penserebbe mai che io possa aver pensato frasi che sono all’interno del disco. La gente le attribuisce a lui, giustamente, perché lui che scrive.

Raccontavi che è stato il lavoro più interessante della vostra carriera. Com’è stato rincontrarsi dopo un lungo periodo?

Noi ci siamo visti di continuo. Il “lungo periodo” è dovuto al contratto che ci legava ancora con la Universal, da più di dieci anni, ed al fatto che noi siamo molto pigri e molto lenti a far le nostre cose. Dovevamo chiudere questo ciclo, e la cosa più sensata, dato il nostro stile nel fare le cose, era cercare di dare il massimo per cercare di fare un capolavoro. Non so se ci siamo riusciti: a me il risultato piace moltissimo.

Una domanda provocatoria: è l’ennesima ripetizione dei lavori precedenti, proposti in modo diverso?

Sono trent’anni che faccio lo steso disco è un’affermazione che ogni tanto, faccio. Nel momento in cui penso che facciamo RossoFuoco: sono dieci anni che faccio lo stesso album.

Cosa ti ha dato l’esperienza nel cinema, facendo riferimento al film Guardami, di Davide Ferrario?

Fare musica per il cinema è molto divertente, e con Davide abbiamo deciso di fare come si fa nel cinema serio, quello vero, come in America nelle grosse produzioni: lui mi ha dato il copione, e io ho cominciato a scrivere delle idee, con le quali lui ha girato delle scene. C’era un rapporto di interazione tra la musica e lo script, la sceneggiatura, che si nota nel film. Nella maggior parte dei casi, in Italia, la colonna sonora del film è spesso un’accozzaglia di canzoni già esistenti incollate a caso. Io ho scritto tutti i temi, uno per uno, con la sceneggiatura – prima – e con le immagini sotto – poi.

Giorgio Canali quanto è in guerra con l’industria della musica?

Io non sono in guerra con nessuno: l’industria della musica è quella con cui, anche se marginalmente, ho a che fare. Sarebbe stupido tirate giù delle statue che, alla fine, servono anche a me.

Nei tuoi lavori spesso si legge un velo nascosto di “rabbia”?

Nemmeno tanto nascosto. Nell’ultimo album, in particolare, l’abbiamo tenuto un po’ nascosto per evitare la rottura di scatole di passare per i soliti predicatori, cosa che non siamo affatto. Di predicatori ce n’è sono di peggiori, tutti pronti a battere le mani, tutti insieme, alla gente che li sta ascoltando. Io questo non l’ho mai fatto. Ho deciso di essere un po’ più passionale, e probabilmente la rabbia risulta un po’ velata, però è la rabbia peggiore: quella che la gente “normale” si tiene dentro… quella contro la vicina che ti fa pisciare il geranio sopra le camicie. Poi tu Sali sopra e le tagli la gola, per chissà quale motivo. È quella rabbia repressa, che poi fa più danni, penso.

Dove nasce l’idea del progetto Rosso Fuoco?

Ho delle cose da dire, e ho cominciato a dirle. Le ho tenute in serbo per tutto il primo periodo dei CSI, ed alla fine ho fatto il mio album da solo. Quello che poi, due anni dopo, è diventato un album di gruppo, e da cui alla fine è nato questo gruppo, che è Rosso Fuoco. Da quattro lavori a questa parte siamo tutti e quattro a comporre, a scrivere, a fare concerti dal vivo… è un vero gruppo, io ne sono il cantante. Le idee di base sono mie, ma è un gruppo vero, non è il gruppo che accompagna Giorgio Canali.

In apertura del nostro incontro parlavi di verità. Mi piacerebbe concludere il nostro incontro chiedendoti: Cosa rispondi a chi parla di verità?

C’era un pezzo che so chiedeva cosa fosse, la verità, sul penultimo album. La verità la scrive chi vince, come la storia. C’è sempre un’opera di riscrittura che fa si che la verità la si dice sempre manipolata. È durissimo. Trovare qualcuno che ogni tanto dice: «Io so dov’è la verità» mi dà ancora più fastidio. Il pazzo però, secondo loro, sarei io.

Giorgio, io ti ringrazio per la disponibilità. In bocca la lupo per tutto, e alla prossima. Ciao!

Grazie, ciao!

Ascolta intervista audio a Giorgio Canali.

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