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Cantautore e scrittore ama definirsi «maestro di sentimento».A distanza di due anni dal disco Ovunque proteggi (2006) pubblica il nuovo lavoro Da Solo e parte anche con il tour Da Solo on tour. Un viaggio introspettivo che il compositore intraprende e che definisce come «un disco basato sulle distanze».

Al microfono di Patrizio LONGO incontriamo Vinicio Capossela. Dopo Modì, con Da Solo ritorni alla stampa su vinile e all’utilizzo di questi suoni che rimandano alle puntine che scricchiolano. È un voler tornare ad apprezzare quello che è stato?

Quello che posso dire è che per la prima volta nella mia carriera, da quando il vinile è scomparso, noi – “noi” inteso come “la Cupa”, l’entità produttrice di questo disco e di questo spettacolo – abbiamo prodotto e realizzato anche il vinile che uscirà domani nei negozi. Si tratta di un doppio vinile, 180 grammi, ed è una cosa bella perché penso che – soprattutto adesso, con la smaterializzazione della musica – il supporto originale del disco sia forse quello che rende di più in termini di “fisicità” dell’opera. L’abbiamo realizzato da noi; figuratevi che le case discografiche credono così poco in questo che la Warner ci ha dato la licenza di farlo per conto nostro. E noi l’abbiamo fatto proprio per questo motivo, per così dire, “materico”. Per quanto riguarda i suoni, invece, il lavoro che c’è dietro è molto incentrato sul suono, sulle distanze. Tutto il disco è incentrato sulle distanze: sui rapporti, sulle relazioni, ma anche sulle distanze fisiche. È per questo che ci siamo affidati anche a qualche professionista, come J.D. Foster, il produttore con cui abbiamo curato il missaggio. E Alessandro Stefani, che è coproduttore musicale ed è uno specialista del suono. Perché io penso che, oltre alla poesia testuale ed alla poesia strumentale, ci sia proprio una poesia del suono.

Per questo abbiamo prestato una certa attenzione alle fonti sonore, e quindi agli strumenti che usiamo anche nello spettacolo dal vivo.

Il nostro set ha un bel dispiegamento di strumenti: uso due pianoforti, di cui uno della stessa epoca di questo teatro; è un Érard, un pianoforte francese dell’inizio del secolo, che ha un suono antico, rotondo, che solo i vecchi pianoforti hanno. La parte finale dello spettacolo è fatta con un piano verticale, senza la coda, che consente un’intimità molto diretta, visiva, perché ti permette di essere direttamente lì sul proscenio, col pubblico, ed ha proprio quel suono “da saloon”.

Secondo me il suono è già evocativo, a partire dal tipo di strumento che si usa. Oltre a questo, c’è tutto un parco di strumenti che attingono all’immaginario americano dell’epoca delle tempeste di sabbia e della grande depressione. Forse è un caso che ci troviamo in un periodo storico abbastanza analogo, con dei rivolgimenti in cui l’America viene di nuovo alla ribalta nel suo momento di entusiasmo, ma anche di crisi. Lo stesso disco contiene una parte di ballate che attingono alla vecchia America.

Questo teatro, poi, è perfetto per questo concerto, sono veramente molto contento che per la prima volta dopo diciotto anni di carriera possiamo esibirci qui. E con lo spettacolo più idoneo a questo teatro: rimanda a Tito Schipa, ma io ci vedo un immaginario liberty, una sala che potrebbe essere anche a Cincinnati se non fosse a Lecce. Ed a Lecce è molto meglio che lo sia, ma queste sono questioni assolutamente personali. Lo è in generale questo disco, ma in particolare lo sono questi due concerti che facciamo qui, perché riguardano miei rapporti personali molto consolidati, che riguardano la mia vita… e queste sono confidenze che valgono doppio!

Il disco Da Solo rimanda a numerose metafore. Ti va di raccontarne qualcuna?

Più che le metafore, queste sono cose sostanziali. Forse il pezzo che metaforicamente racchiude un po’ tutto è l’ultimo scritto, La faccia della terra. È ispirato a un libro di racconti di Sherwood Anderson, che si chiama Racconti dell’Ohio e che, purtroppo, non si trova facilmente. È una specie di Spoonriver dei vivi, nel senso che parla di una piccola comunità dove ognuno ha dei nomi biblici e viene definito dal mestiere che fa. Quindi abbiamo, ad esempio, Ebenezer, il proprietario terriero, oppure il reverendo, ecc. Tutti questi personaggi si muovono, brancolano cercando l’altro: è un libro di piccole solitudini racchiuse in un piccolo paese, in cui è molto chiaro come gli uomini e le donne continuino a cercarsi sulla faccia della terra, a lasciarsi anche storpi e soli. Spesso l’amore, la passione, non sono un completamento. Sono addirittura uno smembramento.

È un lavoro autobiografico?

Sì, certo, è completamente autobiografico. Ma il fatto che lo sia è una metafora proprio come quella dei calzini: i calzini sono creature che, per avere una funzionalità, devono stare in coppia, come i guanti, le calze, le scarpe, ecc. Però, mentre è difficile perdere scarpe, o guanti, tra tutti gli esseri che abbiamo in coppia i calzini sono quelli più soggetti allo smarrimento del compagno. E quindi sono quelli che, secondo me, sono metaforicamente più vicini a noi. Anche perché è una cosa che riguarda molto la vita domestica: il massimo punto di smarrimento dei calzini è in casa, e tutti quanti abbiamo forse una scatola in cui mettere quelli spaiati: quello il famoso paradiso dei calzini. Penso che la canzone possa essere interpretata da ognuno a suo modo.

Hai sempre subito il fascino degli strumenti musicali. Parlando del Mighty Wurlizter lo definisci “un mammifero in musica”, e poi ci sono gli “strumenti inconsistenti”. Ce ne parli?

È la famiglia di strumenti che hanno questo suono… non materico. Qualcosa che può fare un avvolgimento sonoro: la pedal steel guitar, il theremin, i bicchieri di cristallo, la sega musicale, l’armonium. Tutti questi strumenti un po’… inconsistenti. Cioè: il violoncello è uno strumento consistente, molto materico, così come la batteria o il contrabbasso. Invece questi strumenti ti trapassano: il suono ti avvolge, ma ci puoi passare attraverso. Il Mighty Wurlizter l’ho definito così, “il più grande mammifero in musica”, perché è uno strumento gigantesco. Negli anni ’20, nell’epoca d’oro dei film muti, in America si costruirono dei teatri che avevano tutti questi strumenti meccanici, che venivano azionati ad aria compressa. Per cui l’organo poteva suonare tramite dei tubi da cui usciva l’aria: canne, marimbe, gong, era tutta un’orchestra meccanica azionata da un organo molto grande, appunto il Mighty Wurlizter.

Li costruiva la ditta Wurlizter, che è la stessa che poi ha costruito il piano wurlizter, e più avanti anche i jukebox. Per me ha proprio il suono del sogno, un suono fantastico, nel senso proprio delle creature di fantasia, e l’abbiamo registrato per Il gigante e il mago.

Il Mighty Wurlizter, in una sua versione scenica e abbastanza fedele, compare anche in questo spettacolo, ed è questa specie di altare che è alla sinistra del palco, nelle cui tastiere abbiamo anche i suoni campionati di molti dei registri del Mighty Wurlizter, oppure dell’organo. E anche il sistema delle canne, dietro, fa un po’ da elemento scenografico. Perché non è solo uno strumento: il Mighty Wurlizter è un teatro.

Il video de Il gigante e il mago, per esempio, l’abbiamo girato in un posto che non era nemmeno un teatro, ma un pizza stop: faceva le pizze, ma aveva anche questo meccanismo che usciva, e la sala era piena di canne, dispositivi, quindi necessita comunque di un teatro, o, nelle versioni più limitate, almeno di una pizza house.

Volevo concludere il nostro incontro con una domanda e una riflessione: com’è avvenuto il tuo incontro con una band estremamente alternativa della scena statunitense, i Calexico. E perché ami definirti “Maestro Sentimento”, e dare questa meravigliosa definizione della tua creatività?

Approfitto della domanda per precisare alcune cose: ho ascoltato la musica dei Calexico per anni, perché son sempre stato innamorato della musica nortegna, della musica tex-mex e di quella di frontiera. E in generale della frontiera, anche nell’accezione del western, alla Morricone.

In America ci sono un sacco di band che riprendono le musiche degli spaghetti-western e le elaborano con sconfinamenti, facendole diventare surf e altre cose. I Calexico però, soprattutto nei primi dischi, hanno qualcosa della polvere, della frontiera, perché l’Arizona è un posto così: limpido e polveroso.

È una cosa che è nata dall’incontro diretto, non c’è stato nessun professionista a metterci in contatto. Per un caso Joey Burns ha ascoltato Ovunque Proteggi, e gli è molto piaciuto. Abbiam suonato insieme una volta, e abbiamo fatto un lungo viaggio per tutti gli Stati Uniti, che abbiamo concluso a Tucson. Penso ci sia stata affinità di polvere, ecco. Mio nonno aveva questo modo di dire, che mi piace molto: «Chi tiene polvere spara.»

Entrambi avevamo la polvere, e abbiamo cercato di sparare qualche colpo. La loro era polvere dell’Arizona, la mia è polvere della valle dell’Ofanto, ma produce ugualmente un bel botto. Mastro Sentimento, invece, non è una definizione che mi riguarda, ma un personaggio che compare in Al Veglione – che è ispirato a una sala veglioni di Andretta, il paese di mia madre.

In quell’immaginario di personaggi c’era un Mastro Sentimento che era un sarto, così bravo da vincere il metro d’oro per il riuscire a confezionare abiti senza sprecare stoffa. E inoltre era anche barbiere. Si chiamava così perché da piccoli, quando giocavano a pallone, lui faceva sempre il portiere; negli anni ’30 c’era un portiere che si chiamava Sentimenti, e allora, come succede nei paesi, subito l’hanno chiamato così: Sentimento. Spero di essere andato esaustivo! Adesso devo andare a prepararmi, sennò il concerto non verrà bene.

Grazie!

Grazie a voi!
Ascolta intervista audio a Vinicio Capossela.

Visualizza le foto: intervistalive

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