Hanno un suono pop-rock che ci piacerebbe definire frizzante nel senso più ampio del termine. Il loro suono è semplice, immediato senza alcuna pretese.

Siamo in Toscana a Livorno per l’esattezza e stiamo ascoltando Hanno ucciso un robot il nuovo disco per The Walrus che incontriamo per raccontare di questo Cd che si ascolta in modo armonico semplice e diretto.

Bentrovati The Walrus. Quando Hanno ucciso un robot, una provocazione verso cosa?

Bella domanda. Ma è da rivolgere al nostro bassista, Dario. È lui l’ideatore di codesto titolo. Noi (io e Francesco, l’altra chitarra) scriviamo i brani e diamo i titoli alle canzoni, Dario, nel suo ruolo marginale di bassista, prende queste grosse decisioni… non si è ancora capito il perché.. ma mi sa che non c’è un perché.

Un lavoro semplice, armonico ma diretto. Proprio in quest’ultimo aggettivo che si basa la vostra musica?

Sì, diretto credo ci piaccia. Anche se dite pop, non ce la prendiamo eh. Semplice invece non lo definirei proprio. Il disco è nato dalle nostre creazioni, faticose, pensate, macinate, e grazie ad un lavoro molto intenso e partecipe del nostro fonico di studio, nonché produttore artistico, Lorenzo Ori, che ha curato insieme a noi, gli arrangiamenti del disco. Si tratta comunque di un disco fatto di melodie orecchiabili, in una lingua comprensibile da tutti i nostri conterranei stavolta.

Un ascolto diretto che avverte le influenze anglosassoni vero quali “padri” sonori?

Le influenze anglosassoni sono state determinanti e notevoli nella stesura del primo disco. Sicuramente per questo secondo qualcosa è rimasto (i riff e magari i ritmi). Artisti come The Strokes, Metric, Regina Spektor, Radiohead (e poi non me ne vengono in mente altri..) sono sempre stati di grande influenza, ma abbiamo fatto anche nuovi e più attenti ascolti, soprattutto per quel che riguarda la musica italiana, vecchia (Dalla, De Gregori, Ciampi) e più recente (Dente, Zen Circus, Pan Del Diavolo). Personalmente sono un grande estimatore di Sufjan Stevens, che con la musica italiana ci dice ben poco.

Sono tematiche sociali le vostre come in Dai con la vita e Specchio. Come nascono i vostri testi?

I testi, così come le canzoni, sono stati scritti in parte da me (Giorgio, voce e chitarra) e da Francesco (chitarre). Nonostante il modo completamente diverso di scrivere, ci avviciniamo molto per la scelta dei temi (cambiamento, critiche sociali, storie d’amori controverse..). I miei testi nascono da esperienze vissute: “Signorina Delirio” per esempio, è stata scritta per rendere omaggio ad una serata a dir poco goliardica passata con gli amici; “Macchina volante” esorta al cambiamento, in senso mentale s’intende; “Sogno” è un vero e proprio sogno che ho fatto, dove con una chitarra in mano stavo componendo una canzone… e via dicendo…

Adesso raccontiamo di Marta Bardi quando l’incontro?

Marta si è inserita nel gruppo nel 2007, su per giù. Il primo disco era ormai completato e volevamo arricchirlo con una voce femminile. Fu proposta Marta e venne a Bologna a registrare le sue voci. Da questa breve esperienza ne è nata una grande collaborazione che l’ha portata in cammino insieme a noi, in lungo e largo per tutto lo stivale. Credo sia stata una grande esperienza per lei, che l’ha affermata completamente nel gruppo. Insieme alla voce in tour, Marta suonava pure una tastiera. Pian pianino ci siamo resi conto (tutti compreso lei) delle sue grandi potenzialità e quindi, ecco perchè in “Hanno ucciso un robot” è la voce principale di almeno 5/11 delle canzoni…Ascoltare per credere.

Adesso pensato di fare un album di cover, vero chi rivolgereste l’attenzione?

Mai pensato di fare un album di cover. Da piccoli siamo cresciuti facendo le cover, di gente come Pearl Jam e/o Bush (credo gli unici in tutto il mondo a fare le cover dei Bush), ma da tanti anni ormai, ci dedichiamo alle nostre scritture. Nell’ultimo tour Marta cantava una splendida canzone di Mina “L’importante è finire”. Magari la riproporremo.

A cosa rimanda il nome della Band?

Sempre il nostro bassista, Dario, dopo una serata molto allegra passata con gli amici, a son di vino e tante risate, torna a casa. Il suo pitbull Unkas, di 80 chili (che ricorda più un leone che un cane), lo riceve e gli comunica che in sala vi è un ospite che lo sta attendendo. Dario posa la giacca sull’attacca panni nell’ingresso, e si dirige verso il salotto. Sul divano, un grosso tricheco (walrus in inglese) in posa elegante e seducente, lo sta aspettando. Dario sviene.

Quando è cominciata la collaborazione con Garrincha Dischi?

Dal primo disco. A dire il vero, per Never Leave Behind Feeling Always Like A Child Garricha ha posto il suo marchio e garantito un maggiore “spam”. Col secondo disco invece, l’etichetta si è comportata da vera e propria casa discografica: si è occupata di tutto ciò che riguarda la nascita materiale del disco e si sta occupando dell’ufficio stampa.

Il Cantanovanta e la vostra cover: da dove l’idea di rifare Mare Mare?

Garrincha Dischi ha proposto ad alcuni artisti di partecipare alla compilation Cantanovanta, una lista delle migliori hit degli anni 90. Quando ho visto Mare Mare nella lista, sono andato subito a risentirla e me ne sono subito reinnamorato. È una canzone leggera, danzante e che inoltre ricorda notevolmente la melodia di un’altra canzone che mi fa impazzire: si tratta di “Feel Good Inc.” dei Gorillaz. Andate a risentirla e provate a comparare.

Come mai la svolta verso la lingua italiana? Come sta reagendo il pubblico a questa vostra scelta?

La svolta verso la lingua italiana è nata da un’esigenza di esprimersi nella propria lingua madre; cercare di farsi capire direttamente da chi ti sta di fronte. L’inglese, soprattutto per Francesco, andava molto stretto e quando ci fece sentire le sue prime canzoni in italiano, rimanemmo tutti molto stupiti e interessati. Da quel punto ho provato anch’io a destreggiarmi con la mia vera lingua e quando ho scoperto di “potercela fare” è stato molto molto molto molto soddisfacente. Credo che Il pubblico stia e reagirà molto bene a questo cambio. In fondo siamo cambiati, ma alla fine siam sempre gli stessi. Più maturi ma sempre con tanta voglia di rocknrola.

Cosa si prova prima di salire sul palco?

Tanta adrenalina, ansia, paura. Sia se vai a suonare su un palco enorme, sia se si tratta di un buco, l’effetto è sempre lo stesso. È un bellissimo stato emotivo. Tutta l’ansia che ti corichi sulle spalle almeno un’ora prima di salire sul palco, ti fa venire voglia, una volta salito, di spaccare tutto, urlare, ballare, insomma fare un gran casino. Credo che l’effetto sia questo quando qualcuno viene a sentirci dal vivo.

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