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Personalità creativa quella di Enrico Rava. Considerato il jazzista italiano più noto all’estero. Le sue prime apparizioni nella scena jazz risalgono ai primi anni ’70. Il suo stile è di matrice jazz innovativa con forti richiami alla tradizione classica. Attualmente fra i diversi progetti nei quali è impegnato risulta quello insieme a Sergio Rubini nella rappresentazione di uno scritto diAndrea Camilleri mai pubblicato per documentare la vita del jazzista.

La storia crea una linea temporale fra due città: la Sicilia e New Orleans, la patria del jazz segnata dalla catastrofe dell’uragano Katrina. Apparentemente così distanti fra loro per tradizioni e stili di vita, al contrario legate dalla musica.

Al microfono di Patrizio LONGO incontriamo Enrico Rava per raccontare questa linea ideale fra le righe del jazz. Benvenuto Enrico!

Grazie!

Uno spettacolo itinerante che vi vede protagonisti in diverse tappe italiane, quello scritto da Andrea Camilleri e che vede la collaborazione di Sergio Rubini ed Enrico Rava. Un’interpretazione singolare, che lega due realtà apparentemente così lontane, ma in realtà vicine, dal jazz: la Sicilia e New Orleans. Quando hai deciso di intraprendere questo nuovo viaggio musicale?

La genesi di questa storia risale ad una casa di produzione che voleva fare un documentario su di me. Però, avendo visto che ne era già stato fatto uno da poco tempo, abbiamo dovuto trovare un’idea diversa. Pertanto abbiamo deciso di fare una fiction. Ho parlato con Camilleri, e ho scoperto che lui è un grande appassionato di jazz, lo conosce veramente bene, e quindi la cosa è stata molto semplice. Però il film in realtà non si è fatto, perché poi mettere in pratica l’idea di Andrea Camilleri avrebbe richiesto una produzione hollywoodiana, con viaggi dappertutto. Però ai produttori è venuto in mente di fare un concerto/lettura per utilizzare quello che avevamo. Ne abbiamo fatto uno a Parma, che è stato molto bello ed è venuto molto bene. Si decise di farne ancora qualcuno, e nel frattempo è subentrato Rubini, che è veramente straordinario. Infatti devo dire che, grazie alla sua lettura, mi sono appassionato al racconto. Quando l’ho letto io non ero convintissimo, e invece quando l’ha letto lui mi sono appassionato.

La forza dell’interpretazione?

Sì, certamente sì, sì…

Sei definito un “musicista incurante delle convenzioni”, ti hanno dato questa etichetta. In che termini si manifesta la tua incuranza delle convenzioni?

In tutti i termini, a cominciare dal fatto che io sono un autodidatta assoluto, quindi non conosco nemmeno le convenzioni musicali. E poi non mi piace essere incasellato in nessun tipo di scuola, di stile. Mi piace pensare liberante in tutto, anche nella musica.

Durante il tuo soggiorno decennale in America, hai avuto modo di confrontarti con numerose realtà della scena musicale. Cosa ricordi con particolare attenzione di quel periodo?

In primo luogo, io sono arrivato a New York nel ’67 e credo che sia stato l’ultimo grande momento del jazz. Non vuol dire che poi sia finito ma, pur essendo il livello medio odierno altissimo, si sente la mancanza di grandissimi leader: nessuno può sostituire Louis Armstrong, Duke Ellington, Billy Holiday, John Coltrane e così via… Lenny Tristano, Billy Evans… Tutti questi musicisti se ne sono andati per raggiunti limiti d’età, sono spariti dal mondo e nessuno è riuscito a riempire quei vuoti. Il che è anche abbastanza normale: ci sono dei cicli, e noi adesso stiamo metabolizzando questa enorme quantità di cose che son successe dal ’25 fino alla fine del anni ’60.
Detto ciò, quando io sono arrivato lì, nel ’67, c’erano ancora i grandi che suonavano: Miles che suonava nei club, Monki, Duke Ellington, li ho visti tutti e mi è capitato di suonare con molti di loro. L’impatto è stato forte per me, come vivere il sogno, il desiderio. Sono stato fortemente impattato da Roswell Rudd, un musicista poco conosciuto ma che, secondo me, è uno dei più grandi del jazz moderno. Ho imparato da lui a vedere le cose a 360 gradi, a capire l’importanza enorme della tradizione, dai primordi fino all’avanguardia più sfrenata. E come l’avanguardia non abbia alcun senso se non si basa sulla conoscenza della tradizione.

A proposito del tuo periodo americano, c’è una frase bellissima sulla tua scheda, un incontro con Joao Gilberto durante il quale lui ti diceva: «Suona solo le note necessarie, le altre lasciale.» Com’era interpretabile una frase del genere?

Letteralmente, significa proprio quello. Nasce dal fatto che io ero molto amico di Joao, un’amicizia tra un musicista giovane e quello che secondo me è il massimo genio della musica brasiliana. Andavo molto spesso a casa sua, a volte portando la tromba, a volte suonando un po’ con lui.

Lui mi diceva sempre: «Voi jazzisti… il jazz è bello, ma fate tante di quelle note… perché non fai solo le note che contano? Quelle che non contano lasciale perdere.» Io ci ho pensato un po’ su, e ho capito che è vero: a volte il jazz è insopportabile, sembra una di quelle gare del tipo “quanti elefanti entrano in una 600”. Uno, in un assolo, ogni quattro misure fa due milioni di note totalmente inutili. Fanno solo parte di una routine, di una serie di luoghi comuni: è come se parlassimo usando una sovrabbondanza di parole che non significano niente, tutti proverbi e luoghi comuni. Infatti i più grandi, senza che glielo dicesse Joao Gilberto, suonavano già solo le note necessarie. L’esempio più eclatante è Monk, ma anche Duke Ellington e lo stesso Armstrong, che nei pezzi veloci non fa due milioni di note, ma fa delle frasi molto distese.

Miles è il maestro dei grandi silenzi, dell’usare solo le note che contano. Qui c’è un editing preventivo, estemporaneo: viene spontaneo, così come quando si parla, avere paura del silenzio. Invece è molto importante, perché da modo di pensare un attimo a quello che si vuol dire dopo.

Il silenzio come espressione?

Certo, il silenzio è importantissimo in musica. La tromba, in particolare, è uno strumento che aiuta in questo senso perché, essendo molto espressiva, sono sufficienti due note suonate in un certo modo per rendere di più. Per ottenere lo stesso effetto con una chitarra devi suonarne cinquanta. Il silenzio è importante perché solo il silenzio da valore alle note che arrivano. E la nota che arriva dopo il silenzio è qualcosa d importante, non è buttata lì tanto per far qualcosa.

Mi racconti come ti sei avvicinato all’uso di questo strumento, della tromba. Solitamente il primo approccio è con il piano e la chitarra. Tu come sei arrivato alla tromba?

La chitarra è relativamente recente, o per lo meno non appartiene alla mia infanzia. All’epoca la chitarra era l’ultimo degli strumenti. Semmai il piano, a cui io mi avvicinai inizialmente, perché mia madre era pianista classica. Imparai a suonarlo un po’ a orecchio, da bambino. Però già dall’età di setto – otto anni ero molto appassionato di jazz. Avevo un fratello maggiore che aveva moltissimi dischi, di quelli che contano, e quindi io già a sette anni sentivo Armstrong, Bing, che era il mio idolo, eccetera… Mi piaceva moltissimo New Orleans, tra l’altro.

Poi ho cominciato ad appassionarmi al jazz moderno, a dodici o tredici anni, partendo dal quartetto di Johnny Mullighan e da Chet Baker. Già lì i miei idoli erano tutti trombettisti: Armstong, Bing, Chet… Poi, con i dischi di Miles Davis, sono impazzito davvero alla grande. Finché, a diciotto anni, lui è arrivato nella mia città, a Torino, con Lester Young. Io ancora non pensavo minimamente di fare il musicista. A vederlo sono rimasto shockato, anche perché Miles – oltre a suonare in maniera incredibile – aveva un suono enorme, che catturava e avvolgeva. E in più aveva una presenza scenica paragonabile a quella di Marlon Brando, che quando lo si vede per la prima volta in “Fronte del porto” non si vede altro che lui.

Qualche giorno dopo mi sono comprato una tromba e ho imparato a suonarla, da solo. Ma sempre per gioco, per caso… dopo che ho imparato a suonare qualcosa mi chiamavano a partecipare a delle piccole jam session, tra dilettanti. Poi hanno iniziato a chiamarmi quelli un po’ più bravi finché, a 23 – 24 anni, ho deciso di fare il musicista e basta.

Azzardo un mio giudizio personale: ascoltare la tua musica rimanda senz’altro alle avanguardie, ma non rinnega le classiche matrici jazz. Come si realizza questo punto d’incontro tra classico e sperimentale?

Io amo il jazz, lo amo veramente tanto, e lo conosco benissimo come appassionato prima che come musicista. Quando si parla di avanguardia di solito si usa, secondo me, una terminologia non appropriata perché quella che era l’avanguardia negli anni ’60, come il “free jazz”, oggi è retroguardia. Aveva dei collegamenti con il momento storico. All’epoca ero molto coinvolto in quella musica, quindi l’ho assimilata profondamente. Anzi, ho fatto un disco con Steve Lacy, “The Forest and the Zoo”, che in Giappone è considerato uno dei dieci grandi classici del free jazz. Quella è una cosa che mi è rimasta dentro, ma poi col tempo ho sentito il bisogno di utilizzare la melodia, il ritmo, e quindi sono andato a recuperare la tradizione.

Però mi è rimasto quel modo molto libero di vedere le cose, per cui non mi faccio nessun problema. Oggi ci sono i “boppers”, i ragazzi di 20 – 25 anni che fanno hard bop tipo anni ’50 e che sono veramente dei talebani, dei fondamentalisti. Per loro il jazz è quello fatto negli anni 50′ – 60′, e quello che è venuto prima e dopo non è niente. Invece no: quello è stato un piccolo momento, uno dei meno importanti, perché è stato una conseguenza banalizzata del bebop. Perché la vera grande cosa moderna è il bebop: Parker, Powell, Monk. E poi il “cool jazz”: Tristano, Warne Marsh, Lee Konitz…

Quello era grande, però prima di quello c’è una musica che secondo me – pur non facendo parte del mio vocabolario, pur sentendomi più vicino al altre cose – era ancora più forte, una musica molto legata al ghetto. Aveva una personalità molto più evidente. Penso a tutte le big band degli anni ’30: il geniale Duke Ellington, Jimmy Landsford, Cab Calloway, tutte queste grandi orchestre che avevano la peculiarità di essere musica d’arte – altissima arte – e contemporaneamente musica popolare. Difatti era musica che si ballava, al Cotton Club o in uno qualsiasi dei vari locali. Con il bebop il jazz perde questa caratteristica. Infatti, pur essendo la musica con cui io mi sono identificato, secondo me è il primo passo verso la distruzione, l’imbastardimento di questa musica. Mentre fino agli anni ’40 il jazz aveva un pubblico nero enorme, col bebop comincia a perderlo, e andando sempre più in là lo perde completamente.

Per non parlare del free jazz: perfino un grandissimo come Rodney Coleman ha perso del tutto il pubblico nero. Il pubblico del free jazz è essenzialmente bianco, il che si può anche considerare irrilevante: che sia bianco o nero non importa. Però è abbastanza significativo il fatto che anche il popolo nero che prima ascoltava Duke Ellington e Cab Calloway, con l’avvento del bebop passa, nel giro di pochi anni, ad ascoltare la soul music, come quella di James Brown. Il pubblico di James Brown prima era pubblico del jazz. Da un certo momento in poi è cambiata completamente la classe sociale che ne fruiva. Prima, per esempio si trattava dell’alta borghesia illuminata, personaggi tipo John Hammond, e le grandi famiglie americane. Sta di fatto che, da un certo momento in poi, il jazz diventa una musica per intellettuali bianchi. Ovviamente io sto generalizzando, ma è così: è diventato un genere musicale per intellettuali bianchi ed alta borghesia bianca. I neri se ne vanno ad ascoltare James Brown e Aretha Franklin, giustamente, vanno a ballare.

Oggi il jazz è una musica che si ascolta in Europa e in Giappone: il pubblico e il mercato sono qui, non più in America.

Bollani dice: «Mi ha insegnato un sacco di cosa senza mai dirle. La persona più importante della mia vita. Raramente parliamo di musica, ma di altro, soprattutto di libri.» Quale messaggio Enrico Rava lancerebbe a Stefano Bollani?

Mi lusinga moltissimo questa sua frase, anche lui per me è una persona molto importante. Mi ha dato veramente la voglia di suonare, ma ha anche tirato fuori da me delle cose che io sapevo di avere ma che non avevo mai usato. Come, ad esempio, portare nella musica una forma di umorismo che io ho nella vita ma che invece non veniva mai fuori. Invece con Bollani mi esce anche questo. Quindi secondo me è un arricchimento della mia musica, e in più Bollani ha una cosa: fa si che suonare per me sia sempre un divertimento e una sorpresa, quando sono con lui. Lui mi sorprende sempre. Sono due i musicisti italiani contemporanei che per me sono estremamente importanti: uno è Bollani, e l’altro è un vostro conterraneo che è Gianluca Petrella. Secondo me sono i più grossi musicisti che l’Italia abbia mai generato.

Ringraziamo Enrico Rava per la disponibilità. A presto!

Grazie a voi, e alla prossima.

Ascolta intervista audio.

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